Più di cinquant’anni, un mucchio di polvere. Marzia Nannipieri ci soffia su, ogni mese di marzo, soffocata dal peso di un’esistenza in cerca di una verità che interessava a pochi, o forse a nessuno. Era una ragazza di 23 anni, con due bambini di 4 e 6. Era l’unica che non sapeva e la sola che sospettava, testimone di un omicidio in corso o di una disgrazia che, se davvero disgrazia era, non si poteva evitare. C’era lei e c’erano i suoi figli, quarantanni fa, quando Giuliano Taccola, attaccante della Roma, moriva nello spogliatoio Amsicora di Cagliari. Ci sono loro, adesso. C’è la signora Marzia che continua a ripetere: «La morte di Giuliano non fu fatalità, ma un omicidio».
MORIRE A 25 ANNI. Taccola aveva 25 anni,correva i cento metri in undici secondi, era un toscano tosto di un metro e ottanta, aveva battuto i tacchetti sui campetti in polvere e si faceva raccontare da immagini in bianco e nero e dal gracchiare delle radio. Era un manovale del gol, per l’epoca. Dalla serie D alla promozione in A con il Genoa, poi la Roma: dove il manovale, come succede nella capitale, diventa principe. Scrivevano, allora: «Taccola è un ragazzo tranquillo, un professionista serio che evita accuratamente la pubblicità. È l’antidivo per eccellenza».
IL MAGO IN PANCHINA. Era bravo, era forte: 10 reti nel campionato 1967/68, altre 7 nel successivo lasciato a metà. Lasciato per sempre. Era la stagione con Helenio Herrera, l’ex mago dell’Inter sulla panchina della Roma. L’anno 1969 inizia con influenze improvvise e insistenti, un problema cardiaco, l’operazione alla tonsille, una bronchite, addirittura una polmonite. Confusione, tanta confusione. Taccola si stava spegnendo, lentamente. Herrera lo voleva in campo, litigava con i medici, rifiutava le diagnosi e criticava le cure.
LA FINE. Due settimane prima della trasferta di Cagliari, contro la Sampdoria, Taccola si fa male al malleolo. Recupero lampo, viene convocato per Cagliari: sta male di notte, va in tribuna. A fine partita, scende negli spogliatoi per festeggiare con i compagni, abbraccia e bacia tutti.
Poi, di colpo, iniziò a tremare e si accascia a terra. Tentarono in tutti i modi di rianimarlo, anche con l’intervento dei medici del Cagliari. Non ci fu nulla da fare. Ancora una volta, il comportamento di Herrera fu agghiacciante. Disse ai calciatori che ormai il loro amico era morto e non c’era nulla da fare e bisognava pensare alla prossima partita di Coppa Italia.
A 52 anni di distanza, c’è una famiglia che attende giustizia, un “giallo” che scuote le coscienze. E’ questo il mondo dello sport?