Quella mattina sembrava normale. Salutò il figlio che andava a scuola, niente che facesse pensare a una tragedia. Ma Agostino Di Bartolomei aveva scelto quel giorno, non a caso, per l’ultimo gesto. Era il 30 maggio del 1994. Dieci anni esatti dalla fina di Coppa Campioni persa ai rigori contro il Liverpool. All’Olimpico, il “suo” stadio. Quando il figlio uscì per andare a scuola, il capitano della Roma, uno dei giocatori più amati dal popolo giallorosso, prese la pistola dal cassetto. La fece finita,come aveva deciso, al culmine di un tunnel infinito. Lasciò un biglietto, per spiegare “un disagio che forse avvertiva già quand’era campione eppure quel mondo non gli apparteneva del tutto”. Il “dopo” aveva accentuato quel disagio, lo aveva fatto sentire fuori posto. Succede a tanti campioni, quando si spengono le luci e devi fare i conti con la vita di ogni giorno. “Lo anno lasciato solo” dissero in molti. Aveva un sogno, Agostino Di Bartolomei. Voleva sviluppare la sua scuola calcio, pensare ai bambini. Forse pensava di trovare porte aperte e un sacco di amici e invece aveva fatto i conti con porte chiuse, tante parole e pochi fatti. Se ne andò così, in un giorno di maggio che sapeva già di malinconia e di cose perdute per sempre.