L’ascesa dell’Iran al rango di grande potenza nei primi anni settanta avvenne nel quadro di un regime autoritario, che aveva sottoposto la popolazione al controllo implacabile della polizia segreta di Stato, la Savak (Organizzazione per l’intelligence e la sicurezza del Paese), istituita ancora nel 1957 con l’assistenza del Mossad (Israele), della CIA e del FBI per combattere i gruppi politici di sinistra. La Savak ampliò via via la sua rete, estese i suoi controlli al reclutamento nell’università, nella pubblica amministrazione e nei grandi stabilimenti industriali, oltre a controllare gli organi di informazione e le diverse formazioni associative, e fu responsabile di feroci repressioni, torture e numerose esecuzioni. Dopo anni di espansione economica, basata sull’aumento del prezzo del petrolio, alla fine del 1976 la Rivoluzione bianca dovette affrontare gravi difficoltà, dovute soprattutto all’esplosione della spesa pubblica: mentre negli anni 1972-76 il PIL, petrolio escluso, era raddoppiato e il reddito pro capite triplicato, la spesa pubblica era cresciuta di oltre sette volte.
I cospicui introiti del petrolio non bastavano più per finanziare gli investimenti pubblici, anche a causa dell’elevata inflazione e della diffusa corruzione, e, per fare fronte alla crisi finanziaria, il governo aumentò le tasse, ricorse a massicci prestiti dagli Stati esteri, stabilì un salario minimo, per evitare il malcontento dei lavoratori, mise sotto controllo i prezzi e contrastò gli evasori fiscali del ceto medio. Il risultato dei nuovi provvedimenti fu che lo Stato e la Rivoluzione, che lo shah incarnava, incrementarono il numero degli oppositori e accentuarono le differenze sociali. A quel punto non erano più soltanto la sinistra politica, gli universitari, il clero sciita e i grandi proprietari terrieri a ritenere il governo centrale iraniano uno “sfruttatore, brutale e ingiusto”; anche il proletariato urbano, prodotto dell’industrializzazione a oltranza e dell’esodo rurale, il nuovo ceto medio, i commercianti del Bazar e gli imprenditori lo videro nello stesso modo e si associarono all’opposizione religiosa, che era sostenuta da 80.000 moschee e da circa 180.000 mullah. Alle proteste degli intellettuali del Maggio 1977, seguirono le contestazioni di gennaio 1978 a Teheran e in altre città, lanciando slogan contro lo shah e invocando il ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio. Il governo rispose col pugno di ferro, ma la repressione non fece che acuire il risentimento e l’irritazione delle masse.