Nikos Kazantzakis è stato un grandissimo scrittore greco a cavallo della fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso, esplorando i generi del romanzo, delle memorie, delle opere teatrali e della poesia. La sua opera più nota in Italia è forse Zorba il greco, la cui fama è dovuta in gran parte anche alla trasposizione cinematografica che ne è stata fatta.
Ma la sua impresa sicuramente più titanica, impressionante per la mole di tempo, fatica e pagine che convergono a determinarne il valore, è la prosecuzione in versi dell’Odissea, pubblicata nel 1938, ma elaborata almeno a partire dai tredici anni precedenti, con lunghi ripensamenti e rimaneggiamenti, che hanno condotto l’autore, peraltro, a ridurre la lunghezza del poema dagli originari oltre 40000 versi finali agli attuali 33333, ritenuto un numero perfetto.
Un’impresa come questa è davvero epica, tanto nel senso più triviale del termine, quanto proprio programmaticamente: un epos del tempo moderno, un’opera che riattualizza un genere ritenuto patrimonio di un mondo arcaico in un contesto, quale quello del primo Novecento, che puntava lo sguardo, tra le altre, a esperienze di tipo crepuscolare, frammentario, minimale.
L’imponenza dell’Odissea di Kazantzakis è ora disponibile anche al pubblico italiano: scritta in un neogreco meraviglioso, è stata recentemente tradotta ottimamente. Certamente non si tratta di un libro leggibile come un romanzo, di filato; tuttavia, per chiunque abbia ricordi della figura di Ulisse nell’originale omerico, non può che suscitare curiosità la nuova messa in scena di un personaggio così fondativo.
L’Ulisse di Kazantzakis è in effetti molto diverso dall’Odisseo omerico. Riprendendo il viaggio da Itaca, egli si dirige verso Sud fino a raggiungere l’Antartide, e man mano che si allontana nello spazio, viaggia anche indietro nel tempo: Creta è minoica, l’Egitto è governato dai faraoni.
Ulisse incarna, qui, la libertà, una libertà personificata dalla volontà dell’autore stesso ed espressa nel suo epitaffio: «Non spero in nulla. Non temo nulla. Sono libero». Rispetto a lui, Penelope è un personaggio quasi negativo, poiché lo vincola a rimanere nelle maglie della vita familiare a Itaca, come il figlio Telemaco è l’opposto di lui, posato e conservativo.
Ulisse, invece, è intemperante, “dalle molte vie”, come l’Odisseo omerico, ma in un senso quasi anarchico, che sovverte il paradigma dell’attenta riflessione. Un solo esempio basti: mentre l’Odisseo omerico, per ascoltare il canto delle sirene, si fa legare all’albero maestro, l’Ulisse di Kazantzakis considera questa possibilità un’inaccettabile costrizione. La sua soluzione non è né farsi legare, né tuffarsi incontro alla morte: Ulisse fa salire la sirena con sé sulla nave.
EffeEmme