Inno, preghiera, poesia. Nasce “My sweet Lord” Il 4 settembre 1970 uscì il capolavoro firmato George Harrison

Dei quattro era l’anima intimista e spirituale. Schivo, introverso e riservato, un uomo raccolto nei suoi pensieri erranti alla ricerca del contatto col soprannaturale. Non sempre gli è stato riconosciuto quanto gli sarebbe spettato, eppure dall’infinita fucina dei Fab Four, George Harrison sfornò autentici capolavori: da While My Guitar Gently Weeps (White Album 1968) a Here Comes the Sun e soprattutto la celeberrima Something (entrambe in Abbey Road 1969), solo per citare le tre sue pietre miliari. Tanto che, sebbene un po’ troppo frettolosamente lo avessero liquidato come «terzo Beatle», nulla aveva a che invidiare ai due leader del gruppo, il melodico Paul McCartney e l’esplosivo John Lennon. Chiusa, tra incomprensioni e dolori, l’esperienza con i Beatles, il quarto capolavoro, George Harrison lo realizzò da solista. La stesura di My Sweet Lord ebbe inizio nel dicembre 1969, quando lui, Billy Preston ed Eric Clapton si trovavano a Copenhagen. Harrison finì di comporla il 4 settembre del 1970 a Londra. Un brano dalla forza dirompente avvolto nel calore di una struggente melodia. Eppure, le vicende che lo accompagnarono furono tutt’altro che piacevoli per lui. Inizialmente, nel 1970 fu l’amico Billy Preston a lanciarla, ma il singolo non riscosse successo. Nella penombra dei Beatles, George aveva tuttavia messo insieme una lunga serie di inediti: così pochi mesi dopo averne terminato la stesura, il 23 novembre dello stesso anno, pubblicò My Sweet Lord come singolo dell’album All Things Must Pass, il primo da solista dopo lo scioglimento dei Fab Four. Poche settimane bastarono per proiettarlo in vetta a tutte le classifiche. Da lì iniziarono però le controversie. Poco dopo Harrison dovette infatti difendersi dall’accusa di plagio nei confronti della canzone He’s So Fine composta nel 1963 da Ronnie Mack per la band femminile The Chiffons. Nel 1971 a Harrison e alla sua casa discografica fu intentata la causa che a dibattimento arrivò il 23 febbraio del 1976 presso la corte distrettuale degli Stati Uniti: lui si difese dicendo di essersi ispirato al Gospel Oh Happy Day, ma sette mesi dopo la corte lo giudicò colpevole di «plagio inconsapevole». Non voluto, del tutto involontario insomma. Solo anni dopo l’ex Beatle riuscì a riappropriarsi di diritti del brano. Si calcola che My Sweet Lord abbia venduto qualcosa come oltre dieci milioni di dischi in tutto il mondo. Ciò non toglie che si trattò di una brutta storia. Detto questo, il capolavoro rimane e riflette la personalità dell’artista: le parole della canzone esprimono il suo desiderio di avere un rapporto diretto con Dio attraverso il ricorso a parole semplici di facile comprensione a tutti i credenti, a seconda della loro confessione religiosa. Composta come lode a Krishna, l’essere supremo della religione induista, Harrison affiancò il canto ebraico Hallelujah al mantra Hare Krishna e la preghiera Vedica. Ne venne fuori un inno alla spiritualità, universale, trasversale e oltre ogni credo. Una ballata che è nell’insieme inno, preghiera e poesia, ma soprattutto il ritratto dell’anima complessa di un artista immenso. Una canzone manifesto che compie mezzo secolo, ma non lo dimostra. Perchè i capolavori sono senza tempo. Come la grandezza di chi li realizza.
Elle Effe