Impianto fanghi nel pantano Il progetto presentato da Agsm Aim per Ca’ del Bue è fermo dall’autunno in Regione e continua a ricevere contrarietà dal Comune di Verona che avanza osservazioni e richieste di integrazione. Oggi Commissione Consiliare per un nuovo ordine del giorno

L’impianto per il trattamento dei fanghi da depurazione da realizzare nel complesso di Ca’ del Bue proposto da Agsm Aim e tuttora fermo in Regione dall’autunno scorso per le valutazioni tecniche, rischia di finire nel pantano della politica.
Il motivo? Presto detto. Dopo le decine di osservazioni e richieste di prescrizione già presentate da Palazzo Barbieri, questa mattina si è aggiunta anche un’altra iniziativa dei consiglieri comunali che si sono trovati concordi nella volontà di preparare un ordine del giorno molto stringente al fine di tutelare i Comuni vicini, i residenti, la circoscrizione e il territorio.
L’occasione è stata la commissione consiliare guidata dal presidente Michele Bresaola che ha preso in esame l’ordine del giorno del consigliere Massimo Mariotti e si è aperto il dibattito alla presenza dell’assessore all’Ambiente Tommaso Ferrari.
Da un lato la necessità di dare una risposta all’emergenza del trattamento dei fanghi di depurazione da uso civile, dall’altro la richiesta di garanzie per il timore che nei fanghi vi siano molecole nocive come i famigerati Pfas.
Agsm-Aim punta con questo impianto, che prevede una nuova linea di forni per essiccare e smaltire i fanghi con recupero energetico a economia circolare, a rilanciare anche l’attività di Ca’ del Bue, nato zoppo e mai cresciuto completamente per una serie di gravi errori tecnici che sono costati centinaia di milioni negli anni. Dall’altro, Palazzo Barbieri e Circoscrizione continuano a chiedere studi scientifici con la comparazione anche tra i vari impianti esistenti in Italia e in Europa al fine di capire il comportamento dei Pfas: restano nelle ceneri per cui dopo li ritroviamo in discarica? Si disperdono nell’aria diventando più pericolosi delle polveri sottili e degli ossidi di azoto? Che impatto hanno se sparsi in agricoltura?
Il punto è proprio questo. Qual è la strada migliore? Perché oggi siamo in emergenza?

Uno studio per scoprire la fine dei Pfas

Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente (dati del 2013) più dell’80-90% della popolazione europea è servita da impianti di depurazione di acque reflue e lo smaltimento dei fanghi di depurazione riveste un’importanza basilare all’interno dell’intera gestione del Sistema Idrico Integrato.
L’Italia fino a pochi anni fa era uno dei Paesi della Ue che faceva ancora maggiorricorso alla discarica (40% del totale), seguita dall’uso in agricoltura (40%), con percentuali residuali per trattamenti termici e altre forme di riciclo.
I fanghi da depurazione a differenza degli altri rifiuti, non prevede prevenzione e sono quindi un residuo inevitabile del processo di depurazione delle acque, che necessita di essere smaltito.
Fino a tempi recenti lo smaltimento avveniva in prevalenza attraverso l’utilizzo agricolo dei fanghi, in base a una specifica legge.
Tuttavia sono sopraggiunte nuove limitazioni a questa pratica a seguito di una sentenza della corte di Cassazione Penale del 2017 e di una sentenza del TAR Lombardia del 2018. Perciò la riduzione delle quantità ammesse all’utilizzo agricolo e le restrizioni imposte agli operatori verso questa via di smaltimento dei fanghi hanno messo in crisi i gestori del Sistema Idrico Integrato, facendo lievitare i costi di smaltimento ed aumentando l’incertezza sulla tempistica dei ritiri, spiega Agsm nella sua relazione di progetto.
Portare i fanghi in discarica così come sono, senza trattamenti?
E’ ovviamente una soluzione già bocciata, come è emerso in commissione, perché significa scaricare il problema sulle future generazioni.Ecco quindi la necessità di sfruttare la soluzione termica, combinando i vantaggi ambientali con quelli economici puntando al recupero energetico grazie alla termovalorizzazione come avvenuto negli ultimi 20 anni in Nord Europa.
I vantaggi di questo processo sono la notevole riduzione della massa e del volume dei fanghi; il recupero energetico; il recupero di materiale; l’assenza di maleodorazioni; il modesto fabbisogno di territorio e il recupero dell’acqua.Acqua che, depurata, può essere riutilizzata in agricoltura completando così il processo di economia circolare.

Ca’ del Bue, i perché del no e i motivi del sì

tutte le garanzie ambientali per percorrere questa strada, ma in tempi ragionevoli.
Perché per esempio negli ultimi anni l’utilizzo agronomico dei fanghi di depurazione nella regione si è contratto, e la nostra Regione riesce a gestire 400 mila tonnellate l’anno di fanghi mentre altre 100 mila tonnellate le deve portare altrove.
E ormai la quantità massima di fanghi oggi spandibile nei campi del Veneto è pari a 17.500 t/anno, pari al 7% della produzione di fanghi regionale. Inevitabile il forte aumento del conferimento di fanghi in discarica (+57% nel 2019 sul 2017).
Ecco perché, osserva Agsm, “le più comuni e diffuse vie di smaltimento in Europa prevedono la mineralizzazione del fango per via termica, processi realizzati su scala industriale ormai da decenni e costituiscono quindi una soluzione funzionale e collaudata”.
A fronte di tutto questo, il Comune ribadisce le sue richieste di integrazione del progetto con nuovi studi scientifici, chiede un piano della viabilità, esclude che l’impianto venga utilizzato di notte e quindi dovrà restare chiuso e in base alla serie di osservazioni che ha già presentato nei mesi scorsi, “si può capire che stando agli elementi attuali”, ha chiosato Bresaola, “non può esserci un parere favorevole da parte di Palazzo Barbieri che ribadisce il suo impegno per una riduzione dell’impatto ambientale”.
Parere negativo, con 15 osservazioni, era già stato espresso dalla settima circoscrizione come ricordato dal presidente Carlo Pozzerle in commissione: “Agsm in questi 35 anni è stata assente sul territorio di Ca’ del Bue, non ha eseguito le previste opere di mitigazione ambientale e sono anche sparite le centraline di monitoraggio dell’aria, dati compresi. E la VIA deve arrivare fino a 5 chilometri di raggio dall’impianto, un chilometro solo è poco”.
Non resta che attendere le risposte.