Il volto moderno di Verona. Parla Luciano Cenna Classe 1932, con Luigi Calcagni, scomparso nel 2020 ha disegnato buona parte del territorio. Mente, anima e motore dello studio Arteco di cui è direttore tecnico

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Verona, tante potenzialità sprecate

Troppo mitizzata Giulietta, bisognerebbe spostare l’attenzione sulla bellezza del centro storico

Sono stati bambini insieme, compagni di Università, iscritti nello stesso giorno del 1957 all’Ordine degli Architetti di Verona e, da allora, soci nella professione per 65 anni. Il volto moderno di Verona e del suo territorio degli ultimi sessant’anni è stato disegnato, in buona parte, dagli architetti Luigi Calcagni (scomparso nel 2020) e Luciano Cenna, classe 1932: mente, anima e motore propulsivo dello studio Arteco, di cui è tuttora direttore tecnico.
Architetto Cenna, lei è un professionista illustre e di lungo corso. Qual è il suo giudizio sulla Verona di oggi?
“Ho in mente la Verona di Gozzi, il miglior sindaco del dopoguerra, e di altri due o tre come lui: persone capaci, corrette, colte, esperte di problemi amministrativi, politicamente impostati. Questi sindaci hanno fatto molto per Verona: Quadrante Europa, Zai, Fiera, aeroporto. La città è passata da un’economia prevalentemente agricola, ad una con importanti componenti industriali. A quelle iniziative non è seguito molto altro. Forse le persone capaci ci sono ancora, ma non nei ruoli giusti”.
Quindi la città non ha saputo sviluppare tutte le sue potenzialità.
“Non sono state sviluppate in modo adeguato”.
Cosa ne pensa dell’Isola di Giulietta: allargare la proposta turistica dal balcone al quadrilatero compreso tra via Cappello, piazza dei Signori, via Nizza, via Pescheria Vecchia.
“Temo che si enfatizzi la parte mitizzante su Giulietta, che secondo me è sbagliata. Il tema di Giulietta non va colto così. Oggi via Cappello è popolata solo di negozi che vendono oggetti e dolciumi ispirati al mito: è ridicolo, solo in America si possono tollerare queste cose. In Italia, se facciamo le sciocchezze le facciamo grosse! E difficilmente le compensiamo con soluzioni intelligenti. Temo davvero questa eccessiva enfatizzazione della Verona di Giulietta”.
Ma la città vive sul mito di Giulietta…
“Si, ma è sbagliato. Bisogna vivere su altri miti. Verona ha delle bellezze intrinseche, un tessuto urbanistico importante, un centro storico molto bello e grande, forse il più ampio fra le città italiane. Si deve lavorare su quello che c’è”.
Oltre ad indirizzare il pellegrinaggio laico a Giulietta verso altri luoghi, l’idea dell’Isola prevede che il palazzo del Capitanio, “perfetto Fondaco”, possa ospitare attività commerciali, artigianali, promozionali e di ricerca.
“É impossibile una destinazione complessiva a commerciale. Il progetto Arteco aveva previsto al piano terra un ristorante con bar e gelateria, ma gli spazi che possono esprimere una funzione commerciale sono il 10 per cento dei complessivi 11 mila metri quadri. Gli altri livelli del palazzo sono privi di accessi stradali, quindi inaccessibili dal punto di vista commerciale. Inoltre già da qualche anno il Comune ha espresso a Fondazione Cariverona un vincolo d’uso prevalentemente per attività pubbliche. É vero che un vincolo è sempre modificabile….”.
Dal 2013 al 2018 Arteco ha lavorato al restauro di palazzo del Capitanio, ma adesso è tutto fermo.
“I lavori a palazzo del Capitanio, che doveva avere destinazione museale, si sono fermati perché Fondazione Cariverona sta valutando. Hanno necessità di mettere a reddito buona parte dell’enorme patrimonio edilizio posseduto. Come hanno fatto con gli edifici in Zai: basta pensare all’ex Stazione frigorifera”.

Museo della città per un miglior turismo

Bisogna anche recuperare l’ex Arsenale e trasformare il complesso dei palazzi Scaligeri

Cosa andava fatto secondo lei?
“Si è persa l’occasione per fare una cosa unica, in un edificio unico in Europa. Alla Rotonda andava fatto un Museo d’arte moderna e contemporanea. Invitare un artista internazionale all’anno, e lasciargli utilizzare gli spazi per esporre i suoi lavori a suo piacimento. Avrebbe attratto visitatori da ogni parte del mondo. Se vogliamo migliorare, come si dice da anni, la qualità del turismo a Verona, bisogna fare operazioni di alto livello. Chiamare gente diversa da quella che viene qua in sandali, quando sul Garda piove”.
Un’altra occasione che si rischia di perdere è il recupero dell’ex Arsenale.
“É buona l’idea di fare un edificio in parte collegato alle attività culturali, artistiche, scolastiche veronesi, in parte collegato alle esigenze espansive di Castelvecchio: aule studio, aree per lavorazioni, biblioteca e così via. Dentro il Museo di Castelvecchio non c’è più posto, e quel poco che c’è, ce l’hanno i militari!”.
Quindi è favorevole all’allargamento del Museo negli spazi del circolo Ufficiali?
“Castelvecchio, con il progetto di Scarpa, è un gioiello. Basta pensare a come è posizionata la statua di Cangrande! Solo un eccelso architetto riesce a fare un’opera così. Abbiamo un Museo meraviglioso, che ha un bagno di 70 cm! Non c’è una caffetteria, una rivendita di libri, un’aula per conferenze. Lo spazio dei militari bisogna riprenderselo. Abbiamo palazzi stupendi: offriamone uno in cambio”.
A Castel San Pietro cosa ci metterebbe?
“É da vent’anni che predichiamo che va fatto il Museo della Città. É previsto anche nel piano Folin. Anche se trovo discutibile dividere il Museo della Città in due parti: una a Castel San Pietro e una a palazzo del Capitanio. Si può fare, ma dividere un Museo in due sedi così distanti tra loro è discutibile. Non dico che sia sbagliato, ma discutibile sì”.
Cosa si dovrebbe fare per rendere Verona più internazionale?
“Ad esempio trasformare in area museale tutto il complesso dei palazzi Scaligeri. Si può fare. Certo ci vuole il materiale adatto, esposto in maniera adeguata, senza trasformarlo in miti che non ci sono. E poi bisogna sostenerne i costi. Va valutato l’aspetto economico: la città vorrebbe spenderli questi soldi? Non lo so”.
Parliamo dell’uso delle piazze: manifestazioni, mercatini…
“I mercatini li manderei alla Spianà. Non sto scherzando! É un’area strategica, vicina al centro, ben collegata. Lì si può fare quel che si vuole, non nel centro storico”.

Bentegodi, stadio inadeguato al calcio

L’architetto ne farebbe uno nuovo alla Spianà. E racconta la grande amicizia con Calcagni

Lei farebbe lì il nuovo Stadio.
“La Spianà è il posto ideale. Per fare uno stadio nuovo ci vogliono 150 milioni, ma è l’unica cosa sensata da fare. Lo Stadio attuale è obsoleto, inadeguato. Va demolito, lasciando libera quell’area per il quartiere, che ha bisogno di vivere tranquillamente, con spazi verdi e una piazza”.
Quindi non spenderebbe i soldi per adeguare il vecchio Stadio.
“No. Anche perché non ho capito come si possa fare. Il Bentegodi ha un sacco di problemi, a cominciare dalla visibilità: è uno stadio fatto per l’atletica, quindi la distanza per vedere la partita è eccessiva. Oggi si fanno stadi esclusivamente per il gioco del calcio”.
La Gran Guardia, uno dei vostri progetti più belli, non si presta ad ospitare grandi mostre.
“La Gran Guardia è stato un lavoro coraggioso per l’ampliamento alla sala Vini, divenuta la sala congressi. Ma il problema della Gran Guardia è la difficoltà di accesso, sia come sede espositiva di opere d’arte, sia come sede congressuale. C’è stato un momento in cui sembrava che fosse possibile, per il Comune, acquistare la villa settecentesca che affaccia su piazza Cittadella. Nella progettazione si poteva collegare alla Gran Guardia come sala di accoglienza, con accesso da piazza Cittadella e adeguata possibilità di parcheggio. Era un’occasione unica, un’idea illuminata. La Gran Guardia poteva diventare sede di un’esposizione permanente, anche di opere di grandi dimensioni. Di Paolo Veronese, ad esempio, visto che la città natale del più grande pittore del Cinquecento non ne possiede neanche una!”.
Cosa le manca dell’architetto Calcagni, amico d’infanzia oltre che socio per 65 anni di professione?
“Ogni tanto lo sogno. Eravamo due individualità molto diverse, che hanno ben convissuto grazie alla fiducia reciproca: lui si fidava di quel che facevo io e viceversa. Stimavamo le nostre intelligenze, le nostre capacità. Sul piano qualitativo eravamo simili, anche per la stessa formazione di studi. Anche se poi eravamo molto diversi uno dall’altro”.
Quali le diversità dell’uno e dell’altro.
“Io sono un intuitivo, lui un razionale. Lui era bravo in matematica, io una schiappa”.
Affrontavate insieme la progettazione?
“Per vent’anni abbiamo lavorato gomito a gomito. Poi lo studio è cresciuto, avevamo diversi impegni ed è stato ineluttabile dividerci un po’ per guadagnare tempo: uno iniziava un lavoro e l’altro lo proseguiva. Molti lavori li abbiamo anche seguiti individualmente. Io ho dedicato al lavoro più tempo di lui, che aveva anche altri interessi oltre la professione. Invece il mio unico interesse era il lavoro. Ho sacrificato la famiglia per l’attività”.
Da giovane ha lavorato anche nello studio di Franco Albini.
“Gli devo molto. Ho imparato a soffrire. E a lavorare tanto, senza cedere mai. L’architetto è un mestiere duro perché è facile avere la prima idea, ma bisogna buttarla via. É un mestiere che richiede un’enorme dedizione, grande pazienza, molto coraggio e una forte ambizione. Bisogna non accontentarsi, essere critici. Sapere che se dedichi molto tempo, la soluzione la trovi sempre”.

Rossella Lazzarini