Nel 1953 venne pubblicato il libro di Mario Rigoni Stern che ha forse più segnato la sua fama in Italia, Il sergente nella neve, scritto nel 1944, durante il periodo trascorso dall’alpino di Asiago in un lager tedesco durante la ritirata dalla campagna di Russia.
Il Sergente ha certamente un ruolo centrale nella formazione letteraria di ogni italiano: esso viene consigliato come lettura ed è considerato, ormai, un classico. Tuttavia, il libro viene forse fatto leggere troppo presto: molti di noi l’hanno letto alle medie, considerandolo un passo obbligato, sapendo che è una di quelle opere che “vanno lette” ma senza coglierne, per l’età troppo giovane, il significato e la portata.
Come narrato dallo stesso Rigoni molti anni dopo la pubblicazione del libro, il Sergente non ebbe, alla sua uscita, un’accoglienza unanime e unanimemente positiva; anzi, diversi critici, figli di un’idea estetico-letteraria che teneva in alta considerazione la raffinatezza della lingua e la liricità della prosa, contestarono la lingua troppo rozza, e l’uso scorretto di determinati vocaboli, come, ad esempio, «il lepre».
Queste critiche non colgono il punto, né tengono conto del fatto che Rigoni non era, all’epoca, uno scrittore, e che questo è uno dei motivi per cui il suo resoconto è tanto più valido e pregnante.
Il Sergente narra, con semplicità e immediatezza, da un punto di vista interno e vissuto, la disastrosa spedizione italiana sul Don, manifestando la sofferenza fisica e psicologica sperimentata dai soldati nelle tane e in trincea, la tensione, lo scoramento, il disagio e la sfiducia rampante nei confronti della buona riuscita di un’impresa destinata sul nascere a fallire. Per leggere il Sergente, è necessaria una qualche conoscenza del contesto storico, dello sviluppo delle operazioni della Seconda guerra mondiale, perché l’opera non è un libro di storia; è, invece, un libro della vita che esemplifica e al contempo approfondisce un contesto che siamo abituati a considerare lontano, impresso sulle pagine dei manuali, storicizzato.
Rigoni dà volto ai propri personaggi, li chiama per nome e soprannome, ne riporta le imprecazioni e le divergenze dialettali, perché essi sono realmente persone, sue conoscenze.
Il sergente nella neve, una volta letto in giovane età, andrebbe riletto in età adulta, per poterne apprezzare la complessità emotiva e per poter cogliere in pieno le sensazioni crude, perché pienamente reali, che un’opera non di finzione sa dare.
ElleEmme