I cospicui guadagni territoriali conseguiti da Israele con la prima guerra arabo-israeliana dimostrarono che lo stato ebraico contravvenne alle condizioni stabilite dalla Risoluzione 181, non solo, ma anche infranse i solenni impegni, che aveva assunto nella Dichiarazione dell’atto costitutivo della sua nascita.
Molti storici sostengono che la reale intenzione di Israele era di giudaizzare l’intera Palestina e trasformarla, come scrive Ilan Pappe, “nel futuro rifugio del popolo ebraico vittima dell’Olocausto.” Durante la guerra civile (Dicembre 1947-Maggio 1948) erano fuggiti dalla Palestina occidentale 300.00 arabi palestinesi e altri 500.000 furono costretti ad andarsene nel corso della guerra (Maggio 1948-Gennaio 1949).
In poco più di un anno 800.000 Palestinesi, che corrispondeva al 60% dei residenti, dovettero abbandonare per differenti ragioni i loro luoghi di origine. Spesso fu una pura e semplice fuga dettata dalla paura e scappavano dalle zone in cui il conflitto infuriava più violentemente, mentre in altri casi se ne andarono fiduciosi in una rapida vittoria degli arabi sul nemico sionista.
Pertanto case e terre furono abbandonate da famiglie convinte che il ritorno sarebbe stato possibile in tempi molto brevi. In alcune regioni, invece, fu decisiva l’attività terroristica dei gruppi ebraici più estremisti e violenti, come i cosiddetti revisionisti, guidati da Menahem Begin (ex Irgun). A costoro si devono aggiungere i comandanti dell’esercito regolare israeliano, che espulsero o deportarono molti arabi, dando la forte impressione di intraprendere un’operazione di “pulizia etnica”, predisposta dal piano D (Dalet).
Il piano D ufficialmente perseguiva scopi difensivi e doveva assicurare i confini del prossimo nuovo stato israeliano e prevedeva anche interventi per distruggere basi o postazioni armate di possibili oppositori, che si trovavano dentro o fuori ai confini.
Su questo punto il dibattito storico è molto aperto e non sembra vi sia stata a monte una vera e propria pianificazione finalizzata a cacciare tutti i palestinesi. Baruch Kimmerling e Ioel S. Migdal scrivono: “l’idea di espellere la popolazione araba crebbe parallelamente alla fiducia degli ebrei nella loro vittoria”.
Nel periodo buio tra la fine del 1947 e i primi mesi del 1948, la preoccupazione principale fu semplicemente quella di tenere duro; ma in seguito, sull’onda di una fuga araba che aveva alleggerito notevolmente il loro fardello, i nuovi governanti cominciarono a perseguire, di proposito, l’obiettivo dell’evacuazione degli arabi da zone specifiche del loro stato”. Nella Risoluzione numero 194 l’Assemblea Generale dell’ONU intervenne su alcune delle questioni più problematiche del conflitto in corso (articolo 7: protezione e libero accesso ai Luoghi Santi, articolo 8: smilitarizzazione e controllo ONU di Gerusalemme, articolo 9: libero accesso a Gerusalemme) e affrontò anche l’imponente e drammatico esodo di massa dei profughi palestinesi.
La Risoluzione, al punto 11, stabilì che “ai rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere consentito di farlo il prima possibile e che dovrebbe essere pagato un risarcimento per la proprietà di coloro che scelgono di non tornare e per la perdita o il danneggiamento dei beni che, in base ai principi del diritto internazionale o con equità, dovrebbero essere riparati dai governi o dalle autorità responsabili.”
Inoltre, sempre al punto 11, istituì la Commissione di Conciliazione delle Nazioni Unite allo scopo di “facilitare il rimpatrio, il
reinsediamento e la riabilitazione economica e sociale dei rifugiati e il pagamento del risarcimento, e per mantenere stretti rapporti con il Direttore delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi e, tramite lui, con gli organi e le agenzie appropriati delle Nazioni Unite”.
Il documento fu approvato l’11 Dicembre 1949 con 35 voti a favore, 15 contrari (tra cui i sei stati della Lega Araba e i paesi del blocco comunista) e 8 astenuti.
La Commissione di Conciliazione (UNCCP) doveva praticamente fungere da organo mediatore tra gli stati in guerra, in sostituzione del mediatore ONU Folke Bernardotte, che era stato ucciso dai terroristi della Banda Stern, e operare anche per salvaguardare i diritti degli sfollati. Il suo compito era diverso da quello dell’URWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi nel Vicino Oriente), istituita l’8 Dicembre, che doveva assistere e fare fronte ai bisogni materiali dei profughi palestinesi.
Molti degli articoli della Risoluzione furono ignorati da tutte le parti e, per quanto riguarda l’articolo 11, il governo israeliano non solo disattese quanto fu stabilito dalla Raccomandazione, ma proseguì nella sua politica volta a impedire il rimpatrio dei rifugiati.
Qualsiasi casa o dimora palestinese rimasta vuota, sia nei villaggi o nei quartieri urbani, fu
totalmente distrutta o acquisita e occupata dai nuovi immigrati ebrei e, nel completo disinteresse della comunità internazionale, proseguì l’occupazione di altri villaggi. Nel 1950 fu votata dal
Parlamento israeliano una legge che autorizzava la confisca della proprietà palestinese e il suo utilizzo per fini pubblici.
Gli 800.000 palestinesi sfollati trovarono rifugio nei campi profughi di Libano, Siria e Giordania, dove spesso incontrarono grossi problemi di accoglienza.
Romeo Ferrari, docente di storia e filosofia