Se Gianni Amelio dirige un film su Bettino Craxi, colosso della storia politica italiana e lo fa mettendo in campo Pierfrancesco Favino, attore magistrale, abilissimo nella sua capacità di mimetizzarsi appieno nei personaggi che interpreta, il gioco sembra fatto. L’aspettativa è quella di essere di fronte al film italiano del 2020, occasione unica per un’analisi coraggiosa e spietata del personaggio politico, dell’uomo e dell’Italia stessa degli ultimi anni ‘90. E invece la pellicola, tanto attesa, arranca. Capiamo sin dal titolo, programmatico, che l’intento è cogliere più l’uomo che il personaggio politico, nella sua decadenza, in quella che si configura come una fuga a metà tra esilio volontario e latitanza, ad Hammamet. Gianni Amelio sembra essere poco incline ad una biografia “classica” e dichiara infatti di voler raccontare piuttosto gli “spasmi di un’agonia”. Ma anche alla luce di questa chiave di lettura, resta poco chiara la direzione di un film che si barcamena tra il surrealismo, il metaforico e il biopic, tentando di conciliare troppe identità per riuscire infine ad averne una. Craxi è oramai un uomo malato e fortemente debilitato nel corpo. A questa decadenza fisica, si contrappone la lucidità rabbiosa di una mente attiva, che non può non vedere che “una certa idea di mondo” è terminata, che non ci sarà un ritorno né tantomeno una “riabilitazione” a breve termine. Lo vediamo dunque, in un ultimo scorcio del XX secolo, rintanato nella sua villa in Tunisia, circondato da guardie, assieme alla figlia, la moglie e il nipotino. Appare come un animale ferito, che ha perso il dominio del branco e che dà calci scomposti, memore del potere di cui godeva ma al contempo conscio della fine di un’epoca. Centrale, in questo senso, la sequenza in cui, ricoverato in ospedale a Tunisi, Craxi intima alla figlia di far entrare i giornalisti e mostrare loro quanto sia reale la sua malattia, per poi realizzare che non c’è nessun inviato lì per lui. Il trucco – ma forse sarebbe più corretto dire la maschera – realizzato da Andrea Lanzi e Federica Castelli, combinato ad un lavoro immenso su voce e movenze, permettono a Favino di riportare in vita Craxi. E il film di fatto sembra poggiare proprio sulle spalle dell’attore che forse, paradossalmente, è penalizzato dalla maschera che indossa, che anziché esaltarne la bravura e il lavoro meticoloso su corpo e voce, la copre quasi, banalizzandola. Il peso dato alla figura – inventata ? – di Fausto (interpretato da Luca Filippi) quale espediente narrativo, appare immotivato. E nonostante le musiche di Nicola Piovani, la pellicola sembra mancare di ritmo e di energia, diventando a tratti quasi inerte. Per scelta registica, nessun nome viene citato. Nemmeno quello dello stesso Craxi. Siamo a distanze siderali da film come il Divo di Sorrentino o Il Caimano di Moretti che pure con cifre stilistiche radicalmente diverse, hanno saputo raccontare i loro protagonisti, cogliendone per certi versi lo spessore, una porzione di anima. Qui al contrario, affidatisi troppo ad un’operazione di imitazione/riproduzione, del personaggio se ne è colta più l’apparenza che la sostanza, più la forma che l’essenza. E si è perduta l’occasione di raccontare non solo una figura controversa e dibattuta della politica italiana, ma anche un pezzo della nostra storia, un pezzo di noi.
Giulia Tomelleri