Il vento è cambiato per Luca Guadagnino: dopo il massacro della critica al Festival di Venezia nel 2018 per il suo remake di “Suspiria”, quest’anno è tornato alla Biennale con “Bones and all”, film uscito ieri nelle sale che gli è valso il Leone d’Argento alla miglior regia e il premio Mastroianni alla miglior attrice emergente.
Anni ’80, Virginia. Maren (Taylor Russell) ha diciotto anni, un’indole riservata e un segreto ingombrante da lei stessa incompreso: Maren sente, dalla nascita, il bisogno viscerale di cibarsi delle persone che ama. “Ossa e tutto”, come cita il titolo del film. Dopo anni di latitanza a causa della condizione della figlia, il padre decide di abbandonarla. Incerta e impaurita, Maren decide di andare alla ricerca di risposte sulla sua identità e, durante il viaggio, la sua strada incrocia quella di Lee (Timothée Chalamet), giovane emarginato dall’aria ribelle che condivide la sua condizione. Legati indissolubilmente da un amore intenso e da una natura incompresa che li rilega ai margini, i due adolescenti s’infonderanno a vicenda il coraggio per sopravvivere in un mondo in cui la loro diversità è vista come una minaccia.
Su competenza e talento si può discutere, ma a Guadagnino va sicuramente riconosciuto un merito: la furbizia. “Bones and All” è un film scaltro, perché contiene tutti gli ingredienti ideali per la buona riuscita (ci riesce, effettivamente? Questo è un altro par di maniche). Innanzitutto, il regista palermitano ha deciso di ripuntare sul suo pupillo Chalamet (da lui lanciato nel 2017 in “Chiamami col tuo nome”), il quale, oltre ad essere uno dei giovani attori più promettenti del momento, ha anche un ascendente piuttosto forte sul pubblico. In secondo luogo, seppur le tematiche alla base della trama siano abbastanza abusate, il film può contare sull’originalità. Basato sull’ominimo romanzo di Camilla deAngelis, “Bones and all” si serve del cannibalismo più selvaggio come metafora di una diversità incomprensibile che spinge i protagonisti verso la vergogna, la paura di sé e dei propri impulsi, la volontà di isolarsi. Aggiungiamo poi alla lista gli spazi sconfinati dell’America rurale, la nostalgica colonna sonora anni ’80 e una buona dose di romanticismo: il gioco è fatto. Quello che potrebbe inizialmente sembrare solo un horror dalla vena pulp assume, via via, la forma di una poetica storia d’amore di formazione in cui il cannibalismo funge da legame tra anime perse e sole.
Nonostante le buone premesse, “Bones and all” non convince del tutto: nemmeno la crudezza data dalla presenza costante di carcasse sanguinolente e sbocconcellate aiuta a dare quel quid che impedirebbe di notare la freddezza del film e l’insipidità di alcuni snodi centrali. Niente da dire sulla bravura degli attori, ma anche le loro performance sembrano risentire della glacialità che attornia tutto il film, di fatto in sostanza priva du un’anima emozionale. «Perché tra un bacio e il cannibalismo/ in fondo la differenza non c’è» cantano i Pinguini Tattici Nucleari: tra un film mediocre e un capolavoro, invece, la differenza è tanta.
VOTO: 6.5
Martina Bazzanella