Colpiscono la semplicità, l’entusiasmo, la simpatia travolgente, la straordinaria dedizione per il lavoro e l’amore per i due luoghi che porta nel cuore: la Guinea-Bissau, sua terra d’origine, e il Veneto, patria adottiva. Dionisio Cumbà, 49, è l’unico chirurgo pediatrico dello Stato africano di cui è da poco ministro della Salute. Allo stesso tempo è direttore dell’ospedale pediatrico São José. E’ sposato con Laura, infermiera all’ospedale di Padova. Ha due bambini, Marco e Irene. La famiglia vive in Veneto e lui torna quando può. “Qui manca tutto, c’è un sacco di lavoro da fare”. Ha raccontato la sua storia al quotidiano Libero. E la storia inizia così. Era l’87. «Vivevo a Jugudul, a 60 chilometri da Bissau, dove lavorava padre Ermanno, che grazie al Centro missionario Pime di Milano tutti gli anni portava in Italia 2-3 studenti. Sognavo che avrebbe portato anche me, però prima dovevo fare il liceo. Un giorno sono riuscito ad arrivare nella capitale, me l’hanno presentato e mi ha detto che avrei potuto provare l’esame d’ammissione. Era la mia opportunità. La notte prima del test ho dormito su un marciapiede, non avevo soldi. Gli unici erano quelli della gallina che avevo venduto il pomeriggio prima per pagarmi la corriera». Nella capitale africana Cumbà si è mantenuto intagliando il legno, facendo souvenir per i turisti. Nel ‘91 l’arrivo in Veneto. «Non avevo mai visto la nebbia: pensavo fosse fumo. Da Bissau a Sant’Urbano di Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza. Mi ha accolto famiglia che faceva parte di un progetto della parrocchia. Siamo arrivati in 3, e loro poveretti non lo sapevano. Ci hanno detto che non riuscivano a coprire per tutti i 6 anni di corso. Io e un altro ragazzo abbiamo dovuto unire la borsa di studio, non più Medicina ma Infermieristica, a Verona. Ho imparato l’italiano e nel ’94 mi sono diplomato come infermiere. A Verona, all’ospedale di Borgo Trento. Ho conosciuto il primario di otorinolaringoiatria. Un giorno mi ha chiesto: “Perché non hai fatto Medicina?”. Gli ho raccontato la mia storia. Mi ha risposto che i soldi per iscrivermi a Padova me li avrebbe dati lui. L’ha fatto davvero». Prima però ci sono stati altri problemi. «Doveva arrivare il diploma dall’Africa, poi è entrata in vigore una legge che impediva agli extracomunitari di iscriversi all’Università se non si aveva un tot di anni di studi alle spalle e ne mancava uno. Per riuscire a farlo in tempo il primario mi ha pagato anche un anno di studi in Portogallo. Là altro casino: mi è scaduto il permesso di soggiorno e per tornare in Italia ho dovuto aspettare 3 mesi. Sono arrivato a Padova in treno il giorno del test d’ingresso: 14 esimo su 90 stranieri, ma passavano in 10. Mi sono iscritto a Chimica. Ho riprovato l’anno dopo e sono entrato. Le varie comunità venete mi hanno sempre ospitato. Poi ho cominciato come operatore sociosanitario all’ospedale di Dolo, a Venezia. Sono diventato molto amico del portinaio, Rino. “Morèto, sa feto? N’do veto?” Che ridere! Mi parlava in dialetto. Mi ha regalato il motorino del figlio così dall’Università all’ospedale era molto più veloce. Le signore mi chiedevano: “Gheto magnà? Ocio che el late l’è de boio!”». Poteva fare il chirurgo in Italia, un lavoro ben pagato, e invece è tornato in Africa. «Finita la specialità ero in Guinea in vacanza. Dovevo andare a lavorare a Londra. Prima di prendere l’aereo mi hanno chiamato dicendomi che c’era una bimba di 15 giorni gravissima, aveva la pancia enorme, perforazione anale. Al Bôr non c’era ancora la sala operatoria. Sono corso con padre Battisti in una clinica privata chiusa da anni. Non c’era elettricità. Abbiamo operato con la luce dei cellulari. Salva! L’hanno chiamata Dionisia. Non potevo andarmene. Dovevo aiutare la mia gente e lo sto facendo con l’aiuto di tanti: la Poliambulanza di Brescia, il Progetto Anna, la Fondazione Vigevano Prabis, l’associazione Toka Toka Africa. Al Bôr operiamo tutti, non solo bambini, perché non ci sono altri chirurghi specialisti». Le priorità dell’incarico da ministro: «Ristrutturare le infrastrutture per avere energia e acqua pulita negli ospedali. Avvieremo cooperazioni, anche con l’Italia, per formare i nostri medici qui sul posto». Dionisio Cumbà, sembra un nome veneto più che africano. «Sì, sì, ha ragione: Cumbà è il nome di mio papà, qui funziona così. Dai: alla fine son un veneto abronzà!».