Ti sembra sempre impossibile. Una tragedia che ancora oggi ti lascia senza parole. E son passati 43 anni. Era il 10 marzo del ’77, quando un destino crudele si portò via i fratelli Giacomi. Uno di loro, Mario, era stato anche portiere del Verona, prima di passare al Pescara. Veronese di Chievo, classe ’49, cresciuto a pane e calcio nel Verona, dov’era tornato, titolare, dopo essersi “fatto le ossa” con Cerea e Legnago. Biondo, gran fisico, grandi qualità la personalità del giocatore di razza. Capace, anche, di vincere l’inevitabile diffidenza del “profeta in patria. Mario Giacomi divenne titolare della maglia gialloblù, il sogno della sua vita. In gialloblù resta 3 anni, tra serie A e serie B. E’ lui il titolare del Verona che riconquista la A nel ’75, con lo spareggio di Terni.
Poi, il passaggio al Pescara, lo aveva voluto Cadè, già suo allenatore all’Hellas. E anche là, in maglia biancazzurra, Giacomi si era fatto apprezzare. Anzi, forse il fatto di essere lontano da casa, dov’è sempre molto più difficile diventare “profeti”, lo aveva aiutato a maturare. A completare il suo bagaglio tecnico, sotto gli occhi paterni di Cadè, che prima di essere un allenatore, era quasi un altro papà. Così, quel giorno, quando lo vide arrivare, Cadè capì al volo che era successo qualcosa di grave. “Mister, posso tornare a Verona? E’ successa una disgrazia, è morto mio fratello Antonio, il più giovane…”. Cadè lo accarezzò, non ebbe bisogno di dirgli niente, nè di pensare la risposta. “Vai, Mario, a Verona hanno bisogno di te”. E Mario risalì, col cuore a pezzi, ripensando alla famiglia, agli affetti più cari, a un destino atroce. Il giorno dopo, ci sarebbero stati i funerali, in questi casi si deve essere forti, ancora di più. Arrivò a casa, trovò disperazione. Si fece forza. Consolò tutti, abbracciò tutti. La sera, stanchissimo, andò a riposare. Lui, in stanza con l’altro fratello, Gianni. Uniti nel dolore, indivisibili nella tragedia. La mattina, era il 10 marzo del ’77, li trovarono riversi nel letto, senza vita, uccisi dal monossido di carbonio. Un difetto nella stufa era stato fatale. Passarono dal sonno alla morte senza neanche rendersene conto. La tragedia scosse un’intera città e il mondo del calcio. “Ancora oggi – dicono i suoi compagni – quando ci troviamo non possiamo fare a meno di ricordarlo. E’ come se fosse ancora con noi. Mario era un ragazzo d’oro, solare, allegro, umile. Quando perdi un compagno di squadra così com’è successo a lui, ti resta dentro un dolore senza tempo…”.
di Raffaele Tomelleri