I Fry Days si sono formati nel 2011 a Bussolengo. Attualmente comprendono Jacopo Castellani (voce, chitarra), Federico Autieri (basso, cori), Luca Salvagno (chitarra, tastiere) e Paolo Zerman (batteria).
Nel 2014 è uscito il primo EP della band, seguito poi, nel 2017, dall’LP “I Hear Colors”. Ora i Fry Days stanno lavorando a un nuovo disco che, a differenza dei precedenti, sarà completamente autoprodotto.
Jacopo ha risposto ad alcune domande della Cronaca.
Quali sono le vostre influenze?
“Degli artisti ci piacciono in egual modo: Queens of the Stone Age, Raconteurs, Jack White e King Gizzard & the Lizard Wizard. Tutti apprezziamo, anche se non allo stesso livello, Nirvana, Rage Against t<he Machine e Beatles. Individualmente, Paolo è molto appassionato di musica anni ‘90 e il grunge, e il post-rock e lo stoner lo hanno influenzato parecchio soprattutto batteristicamente. Ha portato al gruppo la psichedelia e band rock contemporanee che si ispirano alla musica anni ‘70 e ’60 in chiave moderna. Invece, la nicchia di Federico è il metal più classico, anni ‘80 e ’90. Luca è molto appassionato di elettronica. Io adoro i suoni un po’ ruvidi, pure a livello di produzione, tipo anni ’60. Mi piacciono gruppi storici come i Led Zeppelin, l’hard rock, il rockin’ blues, il garage rock, il rock psichedelico e il funky”.
Come componente di solito?
“A livello musicale in genere partiamo con una jam session insieme e la registriamo. Dopo, isoliamo delle parti che ci piacciono e le riarrangiamo. Oppure, è successo che abbiamo tenuto alcune ‘gemme’ strutturalmente così come erano perché le consideravamo perfette. In studio tendiamo ciascuno a suonare diversi strumenti. Cerchiamo di non metterci limiti e sperimentare. Per i testi, io inizio a canticchiare sopra per creare le linee vocali. Una volta terminate, comincio coi testi. Tendenzialmente li scrivo io. Però, è successo di comporli a quattro mani o con tutta la band”.
Ho notato che date più peso alla parte strumentale rispetto a quella cantata …
“Tendenzialmente suoniamo in strumentale, eccetto quando proviamo brani già pronti. Forse è proprio una cosa fisiologica nostra. Questo un po’ perché riuscire a esprimerci solo con la musica ci appaga. Poi, in alcuni brani magari è difficile inserire parti vocali in tutti i punti. E meglio lasciare che il silenzio della voce sia esso stesso un modo di narrare”.
Considerando il vostro repertorio, qual è la canzone che vi rappresenta maggiormente?
“Secondo me, abbiamo due anime: una con brani più lenti e una più veloce, punk. Ti direi ‘Bonus’. ‘West, Johnny’ invece rappresenta la parte più ‘posata’”.
Parliamo del prossimo disco: cosa vi ha fatto passare all’autoproduzione e com’è stata la transizione?
“Innanzitutto, un problema di budget. Comunque, era anche una sfida interessante. Poi, secondo me, c’era un motivo di spontaneità. Abbiamo scritto tutti i pezzi nella nostra sala prove. È sempre stato un luogo di ritrovo per noi, un po’ magico. Per cui il pensiero di registrare nello stesso posto ci metteva a nostro agio e ci sembrava di poterci esprimere con più libertà. Il lato negativo è che non avere pressioni fa sì che i tempi un po’ si allunghino. Devi anche avere molta fiducia in quello che stai facendo perché non c’è magari un tecnico che ti dà indicazioni”.
Giorgia Silvestri