Un’estate calda e minacciosa, quartiere Spinaceto, periferia di Roma. In una sfilza di villini bifamiliari costruiti a forza di mutui e lavori mal tollerati, un’umanità furente e miserabile si attacca alla banalità della propria piccolezza per tirare avanti: tra illusioni di magnifiche sorti riservate ai propri figli e piccole, quotidiane malvagità, l’esistenza di un gruppo di famiglie si consuma lentamente, mentre una strisciante disperazione s’insinua in menti e anime di ciascuno di loro.
Nelle migliori favole c’è sempre un momento in cui la linearità della storia si spezza, il mondo edulcorato si apre alle logiche più perturbanti e l’abisso del dubbio domina la scena. Spiazzati dall’improvvisa rottura di un – falso – equilibrio, ci si preoccupa per le sorti degli eroi e si fa il tifo per la ricostituzione di un mondo ordinato nel quale ricominciare, senza la minaccia del mostro. Se invece questa prospettiva di risoluzione viene esclusa le favole diventano favolacce, le storie false s’ispirano a storie vere e i fatti di cronaca si trasformano in racconti di universale disperazione. Da questo gioco tra realismo e fantasia parte il film dei fratelli D’Innocenzo, Favolacce di uomini-mostri e di bambini che osservano la violenza della realtà senza riuscire a trovare una guida che li possa accompagnare verso l’uscita dal groviglio incubico. Vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino nel 2020, il film si orienta infatti verso quei toni del perturbante che dipingono la realtà attraverso un impianto estetico basato sulla reticenza del parlato e sull’espressività delle immagini. Immagini aggressive e primi piani, che privilegiano i particolari di volti o gesti dai quali passa davvero il male che muove l’uomo giunto al suo ultimo stadio di degradazione. Si potrebbe ammiccare al cinismo del cinema greco, ma l’affetto mostrato dai registi per i piccoli protagonisti è talmente forte da spazzar via questa ipotesi: oltre all’elevata qualità delle interpretazioni, ciò che s’impone della loro prospettiva è una precisa capacità di lettura del reale fin nelle sue pieghe più disdicevoli, uno sguardo che ha bisogno tanto di spensieratezza quanto di risposte, e che nel cercare l’uno e l’altro nei luoghi sbagliati si condanna a un destino paradossale e ineluttabile. Se i loro sono corpi minacciati e fuori luogo, spaventosamente adeguate sono le attitudini degli adulti, che hanno fatto del rancore provato verso la propria esistenza un metro con cui giudicare tutti coloro che riconoscono come diversi. Davvero azzeccata, in tal senso, l’interpretazione di Elio Germano (uno dei padri), che con capelli rasati e piglio da attaccabrighe concentra sul suo volto un’ira troppo a lungo trattenuta per non esplodere. Nessuna redenzione insomma, nessuna possibilità di salvezza in questo mondo: coloro che sentono odore di marcio possono tentare la fuga, ma come fare a dormire sonni sereni sapendo che le nostre personali miserie rimarranno sì inconfessate, ma onnipresenti e infestanti compagne di viaggio per tutto il resto della nostra vita?
Maria Letizia Cilea