I cinque suicidi nel giro di tre mesi hanno inserito il carcere di Montorio nella tragica graduatoria delle strutture penitenziarie italiane in cui si muore di più. Una posizione di rilievo che, sul versante del sovraffollamento, la casa circondariale veronese aveva già raggiunto da tempo. A Montorio sono detenuti 500 uomini e 43 donne: quasi 200 persone in più rispetto ai posti disponibili. I detenuti italiani sono il 41 per cento, gli stranieri il 59 per cento, in larga maggioranza di nazionalità marocchina. Come evidenzia il Garante dei detenuti, don Carlo Vinco, in carica dal giugno 2021, fa riflettere il numero crescente di giovanissimi, in forte aumento in questi ultimi mesi. E poi c’è il problema lavoro: fino a qualche anno fa a Montorio riuscivano a lavorare più di 80 detenuti, oggi solo una trentina trovano impiego nei laboratori delle tre associazioni presenti.
Don Vinco, secondo lei cosa non capiscono i partiti italiani, sia a destra che a sinistra, dei problemi del carcere?
“Credo che i partiti capiscano tutto, perché i problemi che esistono adesso, esistono da sempre. Quindi sono questioni conosciute, affrontate in qualche periodo ridimensionando il numero dei detenuti, ma mai affrontando il problema del carcere in maniera radicale. In carcere ci sono gli ultimi, ci sono le persone che non contano. Oggi c’è un’attenzione giustamente sollevata da situazioni tragiche, ma il rischio anche questa volta è che l’attenzione si sposti sul piano dei pareri politici. Credo invece che i pareri dovrebbero essere, prima di tutto, tecnici”.
Per il carcere di Montorio sono sufficienti le misure assicurate dal Governo?
“Sufficienti non credo, ma sarebbe un primo aiuto importante. Soprattutto l’arrivo di educatori può essere un sostegno. Però, oltre agli educatori, a Montorio mancano anche psicologi e psichiatri, perché il cambiamento nella popolazione carceraria in questi anni è stato piuttosto forte. Oggi c’è una grossa presenza di persone con gravi disturbi psicologici e psichiatrici. Persone che non dovrebbero essere in carcere, pur avendo il peso di una colpa anche grave. Il carcere non è né il luogo in cui si possono punire, né il luogo in cui si possono recuperare. Sono persone che hanno bisogno di altri luoghi, per essere curate”.
I detenuti che lavorano sono troppo pochi.
“Uno dei cammini fatto in tante carceri è stato quello di una proposta lavorativa significativa, sia interna che esterna. Penso al carcere di Padova, che da diversi anni è riuscito a strutturare notevoli esperienze lavorative. Anche a Verona in passato ci sono state esperienze positive, finite per motivi di disorganizzazione. Passare la giornata in cella senza fare nulla, per una persona detenuta è fonte di ulteriore difficoltà e di tensione. C’è una legge importante che assegna grossi vantaggi a chi porta dentro al carcere un’attività. Abbiamo più volte tentato di proporre possibilità lavorative, ma finora l’ambiente economico di Verona non ha risposto a sufficienza. Credo che, vista la possibilità lavorativa veronese, dovrebbero esserci risposte più importanti”.
I detenuti che lavorano sono pochi
Se un detenuto non impara un lavoro, è difficile che a fine pena riesca a reinserirsi nella società.
“Le statistiche dicono che dove la persona ha avuto un lavoro, sia interno che esterno al carcere, ha una recidiva infinitamente più bassa”.
Suicidi: qual è il rischio maggiore?
“Il suicidio è una dimensione molto difficile da decifrare. É chiaro che nel momento in cui entrano in carcere persone con grandi fatiche psicologiche o psichiatriche, possono essere sostenute solo se trovano un ambiente in cui diluire il loro dramma interiore. Se invece l’ambiente stesso arriva a chiudere il senso di speranza, la disperazione non fa che aumentare. Questo parlando in generale. Se invece consideriamo la dimensione personale dei suicidi, nessuna situazione è paragonabile ad un’altra: sono tutte storie diverse, uniche”.
Le statistiche dicono che il rischio di suicidio è maggiore nei detenuti privi di un legame familiare.
“La relazione con i familiari è fondamentale sempre. Sia come conforto, sia come sostegno al primo diritto di un detenuto, che secondo me è il diritto alla speranza. É chiaro che per le persone straniere questa possibilità non c’è: spesso sono sole e l’unico modo che hanno per comunicare è la videochiamata”.
Quante se ne possono fare?
“Dipende, normalmente una a settimana. Ma la direzione cerca di avere un’attenzione particolare sull’utilizzo del telefono, nei casi in cui il rapporto familiare risulta essere di maggiore aiuto. Certo si potrebbe fare di più”.
Aumenta il numero di detenuti giovanissimi.
“La popolazione carceraria è sempre in cambiamento, perché è legata ai problemi che vive la società. In questo momento, sono tre le tipologie che hanno determinato il maggior cambiamento: persone con disturbi psicologici profondi, persone legate alla violenza di genere, ragazzi giovanissimi dai 18 ai 23 anni. E quest’ultimo elemento, quello della trasgressione giovanile, deve farci molto pensare”.
Per quali reati entrano in carcere?
“Sono ragazzi legati allo spaccio e al consumo di droga. Ragazzi che hanno una reazione violenta nei confronti delle regole e dell’autorità. E disattenti alle conseguenze personali: molti di loro sembrano non aver paura del carcere”.
Più italiani o stranieri?
“In maggioranza provengono da famiglie straniere, anche se loro sono nati e cresciuti in Italia”.
E questi ragazzi vengono messi insieme ai detenuti anziani.
“Vengono inseriti fra i detenuti in attesa di giudizio. E comunque, oltre alla commistione fra giovani e adulti, problema che si trascina da anni, è grave anche la mancanza del segreto d’ufficio: finiscono sul giornale prima di essere giudicati”.
Su Turetta polemiche pretestuose
Inevitabile una domanda sul detenuto in questo momento più famoso: come sta Filippo Turetta?
“Sta facendo il percorso di tutti i detenuti. Trattato dal carcere come ogni altro detenuto, e accolto dai detenuti come ogni altro compagno di sventura”.
La polemica su Turetta che gioca alla playstation si è rivelata una bufala.
“Polemica pretestuosa e vana. Che non è servita a nulla, se non a creare false opinioni. Io ho portato in carcere un anno fa due playstation per le sezioni sanitarie, quella di infermeria e quella di cura psichiatrica. Pensare che sia un privilegio per i detenuti la possibilità di avere un piccolo svago, per qualche momento della giornata, vuol dire non conoscere la sofferenza e la disperazione di chi è rinchiuso. Tra l’altro, volendo essere precisi, Turetta non ha mai usato la playstation. Purtroppo è stata amplificata dai media una notizia non vera, diffusa da una piccola associazione”.
Per i detenuti è importante parlare con lei?
“I colloqui sono occasionali, alcune volte di conoscenza, altre volte più personali. L’anno scorso ho fatto più di 500 colloqui individuali”.
Quanto tempo la impegna il suo ruolo di garante? Riesce ancora a fare il prete?
“Mi impegna molto. Varia secondo i periodi, ma in questo mi sta impegnando moltissimo. É un impegno psicologico, di attenzione, di ascolto delle diverse situazioni. Per deformazione professionale – chiamiamola così – di prete, il mio è un impegno che si rivolge alla sfera personale, di relazione con il singolo. Servirebbe forse anche un’attenzione più globale, ma questo dipende dalla sensibilità e dalla cultura di chi svolge questo ruolo, che non è ancora ben definito”.
Rossella Lazzarini