I Persiani di Eschilo sono l’opera teatrale integra più antica che ci è pervenuta; inoltre si distingue tra le tragedie greche per l’argomento storico e non mitologico.
Andata in scena nel 472 a.C., infatti, drammatizza gli eventi recentissimi delle guerre persiane, in cui i Greci ottennero la vittoria finale nel 479 a.C. dopo aver trionfato l’anno prima nella battaglia navale di Salamina.
Si trattò di un decennio di conflitti estremamente duro per la civiltà greca che si trovò a scontrarsi con le armate persiane subendo anche terribili sconfitte: la più famosa avvenne nella battaglia delle Termopili, i cui caduti furono celebrati e onorati, diventando parte fondamentale della memoria storica già nel V secolo. Eschilo stesso, e il pubblico che assisteva alle sue tragedie, avevano combattuto in prima persona nelle guerre, conservando fresco il ricordo degli eventi di solo qualche anno prima.
Tuttavia la tragedia non mette in scena il punto di vista dei Greci vincitori, ma adotta la prospettiva dei Persiani sconfitti, di cui si attende il ritorno. Si crea in particolar modo la dualità tra l’immensa armata orientale, che si riversa in terra greca come un oceano che si espande senza confine, e il condottiero Serse, prima fiero di condurre la spedizione sfidando anche la legge divina, poi solo, distrutto dal suo destino.
Nel prologo, il coro e la regina madre aspettano con ansia il ritorno di un’intera generazione di uomini, l’esercito più potente del mondo che però sarà completamente divorato nella sconfitta. Serse, al contrario, torna a Susa ma è responsabile della catastrofe: nel tentativo di far passare i soldati all’Ellesponto su un ponte di travi, arrogandosi il diritto di sottomettere e frustare il mare, ha violato la natura e la volontà degli dèi. Eppure non muore in battaglia o sulla via del ritorno come i suoi uomini, bensì è l’unico a giungere alla reggia, lacero e spogliato di ogni dignità, conducendo nella seconda parte del dramma un lamento insieme al coro, che è tra i più lunghi e strazianti di tutte le tragedie.
È difficile credere che negli occhi dei Greci, che vedevano la messa in scena, non ci potesse essere un senso di orgoglio e soddisfazione per la sconfitta ostentata di chi li aveva invasi provocando un decennio di guerra appena concluso. Tuttavia non c’è solo scherno: nel protrarsi del dolore e della consunzione – per chi è morto, ma anche per le spose che non vedranno mai più i loro uomini e per la regina costretta a vedere il figlio annichilito dal suo destino – Eschilo esplora anche la pietà nei confronti del terribile nemico vinto.
Nell’incrocio di sguardi tra Serse, “dagli occhi serpentini”, che ora si trascina ferito gridando la rovina sua e del suo popolo, e gli spettatori ugualmente feriti da dieci anni di conflitto, Eschilo riesce incredibilmente ad avvicinare i vincitori ai vinti, nella complessità di emozioni che ogni vittoria duramente conquistata porta.
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