Due anni prima, al mondiale di Mendrisio del 1971, fu l’unico a resistergli e l’ultimo ad arrendersi alla sua furia. Sempre stato così del resto, tra Eddy Merckx e Felice Gimondi. «Eddy provò a staccarci tutti. Fui l’unico a rimanergli a ruota. Alla sera dopo aver stretto i denti tutto il giorno avevo un male cane alla mandibola. Se lui vedeva che recuperavi anche un solo un centimetro, allungava» raccontava sempre Gimondi.
«La mia sfortuna – ripeteva – è che ho trovato sulla mia strada uno come Eddy. Che bestia…! Con Merckx ho dovuto cambiare pelle; da attaccante divenni difensore, ma era l’unico modo per resistere a uno così. Non potevi dargli più di una bicicletta. “Se la perdo, non lo prendo più” mi dicevo». Merito che il Cannibale gli ha sempre riconosciuto: «Felice è stato il mio avversario più forte. Lo ammiravo perché non mollava mai. Eravamo avversari, certo, ma amici».
L’uno davanti a divorarsi tutti in una corsa a eliminazione, l’altro a dare l’anima pur di restargli in scia: alle spalle del Cannibale, Gimondi fu terzo al Giro d’Italia del 1968, secondo al Tour de France del 1972, secondo al Giro delle Fiandre del 1969, secondo alla Milano-Sanremo del 1971, terzo al Giro di Lombardia del 1972: dura da digerire per un campione dalla classe cristallina come lui, già vincitore di due Giri d’Italia nel 1967 e 1969, una Vuelta España nel 1968 e un Tour de France nel 1965, quando a 22 anni, arrivato in Francia da gregario, se ne tornò a casa a Sedrina in maglia gialla; e pensare che era in aspettativa come postino, perché ancora non sapeva se la carriera da corridore gli potesse garantire un futuro.
La litania dell’eterno secondo, quindi? No, perchè non fu sempre così. E ciò che appariva come un sortilegio segnato dal destino, fu spezzato nel torrido pomeriggio del 2 settembre del 1973 sulle strade di Barcellona, in quello che sarebbe passato alla storia come il mondiale della grande rivincita di Gimondi sul suo feroce e vorace avversario. Lo scacco al re al Montjuic. Clamoroso e impensabile: il bello dello sport è che nulla sta mai scritto prima, ma semmai più prudentemente se ne prende nota dopo. Lezioni di vita.
Fu ciò che avvenne quel giorno. Corsa durissima sotto il solleone, ritmi forsennati imposti da Merckx e i suoi luogotenenti; all’ultimo giro, a giocarsi l’iride rimasero in quattro: Luis Ocaña, lo spagnolo triste, Felice Gimondi e due belgi, Freddy Maertens e ovviamente Eddy Merckx. Sembrava tutto deciso; dei quattro il più veloce era il giovane Maertens, frenato però dall’obbedienza al suo sovrano che la corsa pareva avercela ormai nel taschino.
Come andò a finire, lo lasciamo alle parole di Gimondi: «Eddy parlottava con Maertens, non capivo il fiammingo ma era chiaro gli stesse chiedendo di tirargli la volata. Rimasi a ruota di Eddy. Arrivati sul rettilineo, lui fece il “buco” per farmi passare. Non abboccai. Fece allora partire Maertens. Era un falsopiano al 3%, duro. Io venni fuori e passai Maertens: lui si aspettava Merckx e quando si accorse che invece ero io, era ormai troppo tardi. Divenni campione del mondo ma se avesse fatto il suo sprint, Maertens ci avrebbe battuti di sicuro. A fine carriera dissi a Eddy “Grazie per avermi fatto vincere il mondiale”. Lui nel finale era senza gambe, facendo tirare la volata a Maertens mi fece un gran regalo». Così Gimondi riscrisse una storia dall’epilogo sin troppo scontato. Ne uscì un capolavoro.
Elle Effe