Il candidato più accreditato a subentrare a Giovanni Leone, travolto da una campagna accusatoria che a distanza di anni risulterà del tutto infondata, è Amintore Fanfani. Come scrive il 16 giugno 1978 sulle colonne del Corriere della sera Walter Tobagi già nel 71 era stato “il candidato ufficiale della Democrazia Cristiana; ma alla fine aveva dovuto arrendersi davanti all’opposizione delle fronde delle sinistre”.
L’IRONIA DI ANDREOTTI. Il 29 giugno hanno inizio le votazioni per il Quirinale. Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, ironicamente sentenzia: “Il Quirinale è l’ultimo colle di Roma che sia rimasto fatale”. Il clima è teso, fra i più difficili della storia repubblicana. Gli echi dei tragici cinquantacinque giorni del rapimento Moro incidono pesantemente su una politica che in quei giorni ha recitato molto spesso la parte peggiore.
I primi tre scrutini sono solo prove di schermaglie tattiche. La DC porta avanti la candidatura di Guido Gonnella, il PCI quella di Giorgio Amendola, il PSI propone Pietro Nenni. Il vertice dei sei segretari dei partiti costituzionali è naufragato. Il nome del settimo presidente non si trova. I socialisti avanzano il nome di Giolitti, dopo quello di Vassalli.I repubblicani propongono Ugo La Malfa. Lo stallo sembra assoluto.
L’IDEA DI CRAXI. La svolta arriva il 2 luglio. Il segretario del PSI Bettino Craxi lancia l’ex presidente della Camera, Sandro Pertini. Il suo profilo appare ideale per ricoprire in quel momento cruciale la più alta carica dello stato. Pertini è sempre stato coerentemente socialista anche se, talvolta, ha assunto atteggiamenti di indipendenza rispetto al partito, come quando ribadì la sua opposizione, nei giorni del sequestro Moro, a ogni possibilità di trattativa, convinto che lo Stato non dovesse abdicare alla propria dignità. La proposta di Craxi scuote l’ingessato mondo politico. Pertini rimane sconvolto quando Craxi gli prospetta l’idea della candidatura. Restio e perplesso accetta, a una sola condizione: che sia l’espressione di tutto l’arco costituzionale.
LE TRATTATIVE. La DC appare restia a rinunciare all’idea di avere un suo uomo al Quirinale, mentre al PCI di Berlinguer il nome di Pertini piace. Ma il peso democristiano conta. In questo clima di tiri incrociati la candidatura di Pertini sembra naufragare.
I DUBBI. Il 7 luglio 1978, il giorno prima della sua elezione, Sandro Pertini confida ai cronisti parlamentari: “non vedo l’ora di andarmi a riposare”. Ha in tasca un biglietto per Nizza, deve raggiungere la moglie Carla Valtolina che lo ha preceduto. Ma alle 12, dopo che per l’ennesima volta Zaccagnini ha posto il veto del suo partito sul nome di Giolitti, torna in auge quello di Pertini e il segretario democristiano accetta. Mezz’ora dopo, Pertini incontra Claudio Signorile. Il vicesegretario socialista lo prega di non lasciare Roma. Pertini accetta il consiglio. Poco dopo gli arriva una telefonata. La politica ha trovato l’accordo. Alle ore 12.57 il presidente della Camera dei Deputati, Pietro Ingrao, legge per la cinquecentoseiesima volta il nome di Pertini. Alla fine dello scrutinio, alle 13.21, dopo dieci giorni di lungaggini, trattative e veti incrociati, saranno 832 su 995 i voti a favore di Pertini. Una votazione senza precedenti.