Era forte, Dolfo. Fin da bambino. Era buono e forte.E quando i gerarchi fascisti dissero, “cerchiamo qualcuno che sappia lanciare forte un sasso”, lui prese una pietra e la lanciò lontanissima.
Era forte, Dolfo. Lo sapeva anche papà, che lo voleva con sè nei campi.
“Dolfo, lascia stare lo sport, tu devi aiutarmi nei campi”. Allora, la Federazione prese il papà di Dolfo e gli disse: “Ti paghiamo noi le braccia per aiutarti nei campi. Ma tu lascia stare Adolfo, può ottenere grandi risultati”.
Era forte anche dentro, Dolfo. Uno che non mollava mai, che ci lavorava duro, su quel talento che s’era ritrovato.
Era un fenomeno, Dolfo. E allora cominciò a stupire il mondo, incantato da quel gigante buono, più di 100 kg di forza e di bontà. E arrivarono i record, ma non gli bastavano.
E quel giorno a Londra, sì, era proprio il 2 agosto, come oggi, Dolfo scrisse la pagina più bella. Faceva freddo, pioveva, nel tempio di Wembley. E un italiano, Tosi, aveva lanciato lontanissimo, era in testa.
Allora Dolfo pescò energie infinite, nel suo staordinario serbatoio. Di forza, di tenacia, di coraggio.
E lanciò ancora più lontano, oltre i 52 metri, nessuno più poteva raggiungerlo. Ci provò un americano, Gordien, all’ultimo lancio, disperato ma non fortissimo.
Era un campionissimo, Dolfo. Andò sul podio, lui e Tosi, primo e secondo, una fantastica doppietta azzurra.
Dolfo non si fermò a Londra. Fece ancora record, vinse altri ori europei, andò pure a Helsinki, nel ‘52 e conquistò l’argento.
Divenne un mito. Ebbe una parte in un film, divenne testimonial della Lambretta, uno dei primi grandi esempi di campionissimo.
Partecipò anche alle Olimpiadi di Melbourne, arrivò sesto. Poi ancora a Roma 1960 dove lesse il giuramento e scese ancora in pedana, sempre capace di grandi risultati, degni della sua bellissima storia di uomo e di campione. Gareggiò fino all’ultimo. Il destino crudele era in agguato. Fu colpito da un male che non perdona, se ne andò a soli 52 anni. Indimenticabile, per sempre.
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