Clerville, anni ’60. Diabolik, ladro dall’identità ignota, ha inferto un altro colpo alla polizia, sfuggendo con la sua nera Jaguar E-type. Nel frattempo in arrivo in città Lady Kant, un’affascinante ereditiera che porta con sé un famoso diamante rosa. Nel tentativo di rubare il gioiello, Diabolik rimane incantato dal fascino irresistibile della donna.
Nell’immaginario delle generazioni cresciute negli anni ’60-’70 a suon di pane e fumetto non può mancare l’aura minacciosa e oscura del criminale più misterioso del panorama editoriale italiano: la sua Jaguar, i piani criminali impeccabilmente messi in pratica, l’assenza di scrupoli nel compiere atti criminosi, l’abbagliante bellezza della partner in crime Eva Kant, tutto contribuisce a richiamare alla memoria i pomeriggi passati a leggere le avventure di un personaggio divenuto leggenda. A un pubblico di appassionati e fan si rivolge dunque l’operazione cinematografica dei fratelli Marco e Antonio Manetti, i due registi di Diabolik (uscito il 15 dicembre scorso in sala e ora disponibile su Sky on demand) che dopo 63 anni dall’ultimo adattamento hanno portato le avventure di questo anti-eroe sullo schermo rimanendo filologicamente fedeli ai testi originali.
La trama del film riprende quelle di L’arresto di Diabolik (1963) e di L’arresto di Diabolik – Il remake (2012), proponendo una struttura narrativa che con precisione ricostruisce il mondo di Diabolik: dal tono del racconto al carattere dei protagonisti, ogni frame, ogni colpo di scena ci riporta alle pagine del fumetto ai suoi albori; l’adesione pignola alla serie scritta dalle sorelle Giussani non si limita però a una trasposizione visiva della storia, perché è l’intero universo cinematografico messo in scena dai Manetti Bros. a essere uscito direttamente dagli anni ’60: non solo la trama, dunque, ma anche la recitazione, i dialoghi, la lentezza della narrazione, lo stile degli arredi e dei costumi, fino alla palette di colori utilizzata per avvicinare il film ai toni ormai innaturali tipici del cinema di quei tempi.
Se la poetica inseguita dai registi si autodenuncia fin dalle prime scene e risulta anche audace sotto vari punti di vista, è evidente quanto la scelta di porre la storia di Diabolik in una prospettiva totalmente anacronistica e anti-popolare rispetto agli standard di intrattenimento contemporaneo sia anche del in buona parte fallimentare, visto che la flemma che investe le interpretazioni e l’insostenibile dilatazione dei tempi rende improbabile – a tratti ridicola – l’intera produzione. Una produzione che non sarebbe errato definire cervellotica e un po’ snob, e che in quella cerebralità si perde completamente, dimenticando le necessità del pubblico generalista e ignorando gli ultimi 60 anni di cinema italiano e non solo. Non perché si debba essere pop a tutti i costi o pronti a inchinarsi alle logiche del mercato, ma perché se arduo è compiere un’operazione filologica di questo genere, ancora più difficile – e meritevole di lode – è innovare, attualizzare e rendere contemporaneo un racconto appartenente a un’epoca passata.
Voto: 5
Maria Letizia Cilea