Carlo Alberto Dalla Chiesa: un uomo che diversi decenni del ventunesimo secolo li ha vissuti sulla sua pelle. Parte dell’Armata durante la Seconda Guerra Mondiale, membro della Resistenza, generale dei carabinieri. Ha combattuto il banditismo, poi le Brigate Rosse. Ha ideato il Nucleo Speciale Antiterrorismo, indagato sul caso Moro. Nominato prefetto di Palermo al fine di ostacolare Cosa Nostra, il 3 settembre 1982, dalla Chiesa è morto nella strage di via Carini, insieme alla moglie e alla guardia di scorta.
Ci si chiede come una vita possa iniziare, come quella del generale, in tranquillità, nella provincia di Cuneo per terminare lontanissimo, in quella di Palermo, all’interno di uno scenario atroce. La risposta c’è ed è chiara, è nobile. Carlo Alberto Dalla Chiesa si trovava lì, prefetto da un centinaio di giorni, per sciogliere il legame che stringeva la famiglia politica più inquinata, così la definiva, alla mafia. Ma dopo le nove di sera di trentanove anni fa lui, la consorte e l’agente di scorta sono stati assassinati e quel momento ha preso il nome di strage. 30 colpi di Kalasnikov AK-47, rumori assordanti e poi, il silenzio.
Si spendono le ipotesi, le supposizioni, le dicerie in merito a quella notte: quanta volontà politica e quanta volontà mafiosa ci siano state, ci si chiede, in quelle morti, si vocifera di quanto fosse netto il confine che le separava.
Ci si domanda chi abbia trafugato i documenti che il generale aveva conservato all’interno della celebre cassaforte, chi abbia rubato quelli che invece teneva con sé al momento dell’omicidio. Parole che non verranno mai lette, parole che potevano essere risposte. Come molti misteri nascosti dietro al nome di Cosa Nostra, la strage di via Carini – e tutto ciò che l’ha seguita – è rimasta insoluta.
Insoluta ma non dimenticata, insoluta ma non perdonata. Gli abitanti di Palermo, coraggiosi e devastati, hanno appeso un cartello sul luogo dell’assassinio la mattina seguente: qui è morta la speranza dei palermitani onesti. I palermitani non hanno dimenticato il crimine, e anche i componenti della stessa mafia non hanno potuto che ricordarlo. Ne è una prova il colloquio del 2013 tra Riina e Lorusso, tenutosi in un’ora d’aria, durante il quale il primo ha descritto la nottata del 1982 nei minimi dettagli, mimando gesti violenti, simulando il suono dei colpi sparati.
Pur essendo Dalla Chiesa un martire della mafia, il suo assassinio non viene commemorato dalla collettività con la stessa frequenza e attenzione riservate, invece, ad altre vittime dello stesso grande carnefice senza volto.