Il 17 febbraio 1600, Giordano Bruno viene bruciato sul rogo, in Campo de’ Fiori a Roma. Dopo anni di resistenza, sottoposto a processo dall’Inquisizione romana dopo la delazione del veneziano Giovanni Mocenigo, Bruno decide di morire. L’aspetto della decisione è fondamentale, ed è stato scandagliato dagli studiosi bruniani in quanto momento culminante di una vicenda che aveva visto il filosofo lottare contro la propria condanna, cercando in ogni modo di vivere. Ciò che interviene, a un dato momento, è la consapevolezza dell’impossibilità di salvare la situazione. D’altro canto, nella messa in scena della propria morte, come su un palcoscenico, Bruno intende portare alle conseguenze estreme il presupposto fondamentale della propria filosofia: l’identificazione della propria biografia, della propria vita vissuta, con il messaggio rivoluzionario veicolato dalla propria riflessione. È quindi la consapevole e decisiva sovrapposizione di vita, filosofia e libertà che rende pieno conto della grandezza del filosofo nolano.
La prigionia equivale alla solitudine, politica e intellettuale, e su questa base è possibile operare alcuni accostamenti: come Bruno, anche Tommaso Campanella e Antonio Gramsci, in epoche e per fini diversi, misero in pratica la lotta per la libertà nel luogo stesso in cui il potere dominante, ecclesiastico nell’un caso, politico nell’altro, tenta di tagliare i ponti dei propri oppositori con il mondo esterno.
Certo, tra Bruno, Campanella e Gramsci intercorrono delle differenze; ma sarebbe anche riduttivo accomunare le loro esperienze riportandole a una mera esaltazione di una non meglio specificata rivendicazione della “libertà di pensiero”. Nell’oppressione esercitata dal regime fascista, nella complice indifferenza delle forze liberali, nell’isolamento prodotto dal suo stesso partito, intento ad altre mire politiche, Gramsci certo non smette di “pensare”: se l’idea è salda, non vi è carcere che possa penetrare nell’animo del filosofo, e questo è vero anche per Bruno e Campanella.
Allora, cosa significa la “libertà di pensiero”? Significa, certo, resistere all’oppressione; ma significa soprattutto decidere di lottare per l’affermazione pratica delle proprie idee, proprio nel momento in cui la prassi – lemma caro a Gramsci – viene meno, costretta dalle mura di una cella. Se la persona non può oltrepassare le sbarre, deve fare in modo che le sue idee possano farlo, e le lettere clandestine e le difficoltà affrontate da Gramsci per comporre le straordinarie riflessioni condotte nei Quaderni del carcere sono preziosa testimonianza del valore politico e pratico che la scelta della libertà deve avere.