Chiusi in 4 pareti, costretti a stare in casa dal 21 marzo fino all’8 maggio, un incubo finito bene fortunatamente. Tutto comincia con i sintomi di mia sorella,quelli detti al telegiornale, mal di testa, stanchezza, febbre… iniziamo a preoccuparci anche perché essendo infermiera il dubbio è più che legittimo.
L’isolamento inizia a scopo precauzionale, dovuto anche dal senso civico e dal cattivo presentimento. Poi l’effettiva conferma : io che dopo pochi giorni comincio ad accusare gli stessi sintomi ,poi lo stesso anche mia madre, intanto il verdetto del tampone di mia sorella : POSITIVO. Il 26 marzo l’ufficio sanitario ci contatta per informarci che il nostro nucleo familiare dovrà restare in isolamento domiciliare fino a ‘nuovo ordine’, e di stare più distanziati possibile, ognuno nella sua stanza.
Un fulmine, una notizia sgradita, sicuramente, ma in fondo un po’ ce lo aspettavamo, da qui di fatto comincia la quarantena nella quarantena. Diverse sono state le sensazioni che si sono susseguite nel corso di tutto questo periodo, all’inizio metabolizzare il tutto naturalmente, capire che per una quantità di tempo indeterminato saremmo dovuti restare confinati in casa, la preoccupazione, l’ansia per ciò che stavamo vivendo e la paura per cosa ancora ci aspettava.
La cosa peggiore, è stato il fatto di non poter smettere di pensare per un secondo alla propria malattia, alla propria condizione come famiglia, quello che vedevi in tv lo provavi a casa. In poco tempo abbiamo dovuto convertire la nostra vita e le nostre abitudini domestiche, dovevamo evitare la vicinanza l’uno con l’altro, all’inizio per esempio io e mia sorella dal resto della famiglia, non c’è stato verso, prima mia madre poi mio padre e infine mio fratello maggiore, in sequenza,tutti con gli stessi sintomi. Pur avendo cercato di attenerci al distanziamento, siamo incappati in qualche leggerezza, e come molti altri abbiamo sottovalutato questo virus. Tutti a nostro modo siamo stati provati dalla stanchezza, il dolore alle ossa e disturbi respiratori ma bisogna dire che dopo un paio di settimane le cose cominciavano a migliorare, in maniera molto graduale.
Io, mia sorella e mio fratello, dopo una ventina di giorni, ci sentivamo meglio fisicamente, certo con qualche postumo e ancora sintomi lievi,ma allo stesso tempo capivamo che il corso della malattia evolveva molto più lentamente nei nostri genitori. Mia madre per esempio passava le giornate intere a letto con forti dolori fisici, mio padre allo stesso modo accusava stanchezza e dolori muscolari che lo costringevano a dormire,entrambi febbricitanti, siamo stati noi figli a prenderci cura di loro praticamente. Un primo piano sulla situazione interna sono le abitudini di noi tutti, come abbiamo affrontato la malattia.
L’esperienza l’abbiamo vissuta insieme a tutti gli effetti,una famiglia in un comune stato di paralisi, evadere col pensiero o distrarsi era molto difficile, in ogni caso frustrante quando ci si riusciva, la stanchezza e i sintomi non lasciavano spazio a niente, solo a quello che stavi vivendo. Chiusi, e confinati, abbiamo sentito il calore e l’affetto provenire da fuori, dagli amici che ci aiutavano a fare la spesa, e dai parenti che ci domandavano di cosa avessimo bisogno e se stessimo tutti bene.
Tralasciando sintomi e le giornate vuote,l’unica cosa possibile da fare per riempire il tempo era parlarsi, stare insieme, vicini, paradossalmente le cose sconsigliate da fare, parlare anche con chi ci aspettava, le persone care che non potevamo vedere.
Gli argomenti potevano anche essere banali, come parlare dei propri sintomi a chi ci chiedeva cosa stessimo provando, aiutare i genitori con lo smart-working e spiegargli come utilizzare le piattaforme digitali, parlare di quanto avremmo voluto uscire di casa e dove saremmo andati dopo la quarantena, magari rispolverando qualche numero che non chiamavamo da un po’.
Tornare ad uno stato di legami più semplici, relazioni più spontanee che autoindotte, questa è stata la cosa che ci ha lasciato, questa la cicatrice che speriamo di non rimarginare troppo presto.
Roberto Ariosto