Sebbene sul film vincitore del Leone d’Oro aleggi ancora la nebbia, a una settimana dall’inizio del Festival una questione risulta limpida: l’80esima edizione della Biennale Cinema passerà alla storia come il trionfo del biopic. In un’era in cui la memoria dura il tempo di una ricerca su Wikipedia e lo slancio antropologico medio si consuma dentro ai confini di Instagram, sorge spontaneo chiedersi come mai, in uno dei festival del cinema più influenti del mondo, si sia scelto di puntare proprio sul fascino discreto della biografia.
Per la verità, il successo del genere biografico non è cosa nuova: sin dall’inizio dei tempi, infatti, la settima arte ha dedicato una particolare attenzioni e numerose produzioni alle storie di personaggi realmente esistiti. Dalla breve ricostruzione della vita di Jeanne d’Arc firmata da Georges Méliès in poi, il successo dei racconti di vita vissuta è stato inequivocabile e continua ad essere duraturo; sarà per il grande potenziale di coinvolgimento di cui questi film sono capaci o, forse, per la spinta all’immedesimazione con i protagonisti cui nessuno spettatore può resistere, certo è che niente come questo genere ci mette di fronte alla nuda umanità di personaggi realmente esistiti che, altrimenti, risulterebbero lontani anni luce dalla nostra quotidianità. Così le travagliate vicissitudini famigliari di Enzo Ferrari nel film di Michael Mann assomigliano a quelle di una qualunque famiglia italiana degli anni ‘60, e le insicurezze della Priscilla Presley di Sofia Coppola vanno oltre l’ombra minacciosa del marito Elvis per assurgersi a storia universale. Se poi dall’immersione nella poliedrica vita di Leonard Bernstein – raccontata in Maestro di Bradley Cooper – emerge tutta l’umana fragilità di un genio musicale elevato negli anni a leggenda intoccabile, anche per lo spettatore meno attento la funzione del genere biopic diventa più evidente: non solo catarsi e riconoscimento di corrispondenze, ma vero inabissamento nelle storie altrui come modalità per alimentare una voglia di conoscenza, una curiosità profonda che ci anima da sempre e a cui, con le moderne modalità di fruizione di contenuti, non siamo più abituati.
Dove le piattaforme e i post dei social conducono a una conoscenza veloce e leggera, la posizione cui il cinema ci costringe, con la sua atmosfera e la sua richiesta dì concentrazione, non è altro che un invito all’approfondimento di storie che ci permettano di scalfire la superficie, scaturendo nuove consapevolezze e domande di cui non sapevamo di avere bisogno. In questa maniera, la trasfigurazione di Pinochet in avido vampiro operata da Larraìn in “El Conde” ci porta a riflettere sugli abusi di potere perpetrati dal dittatore contro il popolo cileno, mentre le dinamiche sportive di Tatami di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi ci fanno confrontare con le violenze e i ricatti cui sono soggette le donne sotto la dittatura della Repubblica Islamica Iraniana.
Vite passate e presenti, temi e questioni ancora contemporanee, che attraverso la settima arte ci tirano fuori dalla nostra comfort zone e, nel bene o nel male, influenzano la nostra prospettiva sul mondo.
Maria Letizia Cilea
Martina Bazzanella