Restaurata e inaugurata nei primi mesi del 2020, la “Casa Museo Maffei” ospita, nel cuore della nostra città, la collezione d’arte creata con passione e ricerca dall’imprenditore e collezionista veronese Luigi Carlon.
Si è già parlato in queste pagine dell’unicità del progetto conservativo unita alla sua singolare capacità di smontare la visione tradizionale del museo. Palazzo Maffei, definito dal suo sito ufficiale una wunderkammer o camera delle meraviglie, si presenta come un luogo molto particolare che, pur non condividendo totalmente con i musei le metodologie e le regole di allestimento, propone oggetti straordinari che spaziano dalla fine del ‘300 alla contemporaneità. Qui le persone, grazie a sperimentazioni comunicative innovative e attraverso non convenzionali raffronti tra antichità e modernità, si sentono coinvolte in insolite visioni. Nella Casa Museo capita di entrare in una piccola sala buia e trovare Lotus Maffei, una scultura a fiore che si schiude come un bocciolo naturale pur essendo artificiale o di assistere a una performance di danza nel teatrino del Palazzo o, ancora, di imbattersi in sorridenti studentesse e studenti che, per il loro tirocinio di studio, diventano guide o voci narranti della serie “La scienza nascosta nell’arte”. Tra i vari progetti messi in scena dalla Casa Museo di sicuro interesse appare “COLORart”, esperienza di ascolto e visione creata in collaborazione con il Teatro Stabile di Verona. Nell’originale proposta i colori prendono vita attraverso la voce e l’interpretazione di Paolo Valerio, regista e attore. L’esperimento comunicativo-visivo prevede che ogni settimana i profili social del Museo si presentino al pubblico attraverso una colorazione diversa e con rimandi alle arti visive, alla musica e alla letteratura. Nella comunicazione il colore è un elemento fondamentale perché capace di rafforzare i messaggi, migliorare l’estetica, attirare l’attenzione, stimolare ricordi. Illuminante risulta l’interpretazione di “Un colore che sia una forma di pensiero” di Carolyn Christov-Bakargiev. Nel video la nota scrittrice e curatrice, attraverso la voce narrante, spiega che “il nostro cervello vede i colori una frazione di secondo prima di distinguere le forme. Una palla rossa la vediamo dapprima come qualcosa di rosso e poi come una palla”. Stiamo quindi parlando di un sistema immediato e rafforzativo, capace di segnalare all’occhio il percepibile prima di averlo elaborato. Sempre Christov-Bakargiev aggiunge che “per migliaia di anni abbiamo frantumato rocce, schiacciato fiori, bollito piccoli insetti per estrarne particelle separate dalla loro essenza originale.
Li abbiamo chiamati pigmenti e li abbiamo resi duraturi” osservando, in un fenomeno chiamato chimica analogica, il gioco degli elementi e delle loro ricomposizioni. Già nell’antichità il colore informava sullo status della persona o indicava emozioni e valori. Partendo dal nero del carbone si poteva esprimere il mistero e l’austerità, mentre il rosso della terra, con variazioni di tonalità, parlava di coraggio ma anche di orgoglio o lussuria. Ma da sempre e su tutto, è la non-pigmentazione del bianco ad attirare l’interesse del mondo delle arti visive. Ne troviamo traccia perfino nelle grotte del Paleolitico, con segni bianchi creati da calcite e gesso. La “questione del bianco”, svela ancora Paolo Valerio nella bella interpretazione di “Libera dimensione” dell’artista Piero Manzoni, “è essere integralmente incolore, non materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo o altro ancora.
Una superficie bianca è una superficie bianca. Essere totale e puro divenire”. Una neutralità che porta alla luce l’interiorità e l’informalità, che consente il contrasto delle forme, che permette al vuoto di emergere. Grazie a COLORart e alle sue suggestioni la Casa Museo si rileva, ancora una volta, capace di oltrepassare il perimetro del consueto.
Chiara Antonioli