La decolonizzazione è il processo con cui, nel XX secolo, molti stati hanno ottenuto l’indipendenza dal dominio coloniale europeo instaurato in modo massiccio con l’avvento della politica dell’imperialismo, responsabile di veri e propri crimini umani tra cui genocidi, schiavismo e l’incontrollato sfruttamento di persone e risorse. Soprattutto negli ultimi decenni la cresciuta sensibilità nei confronti di questa fase oscura della storia europea – iniziata in realtà con le persecuzioni perpetrate contro gli indigeni delle Americhe – ha portato alla distinzione tra “decolonizzazione”, che si riferisce alla politica dei movimenti indipendentisti delle ex colonie e “decolonialismo”, che indica invece un’ideologia più profonda, legata al rifiuto della presunta superiorità culturale e dell’universalità del sapere occidentale. Questo pensiero intende svincolarsi dalle gerarchie della conoscenza occidentale, restituendo pari dignità ad altre forme di culture, saperi e modi di vivere diversi dalla mentalità eurocentrica.
Il colonialismo è andato del resto di pari passo con una violenta appropriazione culturale, in molti casi proprio a partire dai nomi geografici, che furono assegnati arbitrariamente dagli europei senza tenere conto dei toponimi locali o dell’effettiva natura di luoghi già abitati da millenni. Nomi come “Congo Belga” o “Rhodesia” – attuale Zimbabwe, denominato originariamente così in onore di Cecil Rhodes, politico che ebbe particolare rilievo nel colonialismo britannico – sono tragici esempi di come quei territori esistessero solo in funzione degli stati europei che esercitavano il potere negando completamente ogni specificità culturale e geografica.
I musei etnografici europei nacquero spesso nell’Ottocento a partire dalle collezioni di manufatti, oggetti d’uso e religiosi, tessuti, strumenti musicali, opere d’arte, ceramiche, armi e molti altri tipi di creazioni umane di cui gli europei si impadronirono durante le spedizioni coloniali. Le esposizioni museali avevano lo scopo di illustrare, in modo improprio, parziale e fortemente prevenuto, la natura e la vita di popoli ritenuti esotici. L’intrinseca violenza dei conquistatori verso queste diverse etnie era collegata a una profonda ignoranza delle loro reali usanze e modi di pensare; e l’assoluta fiducia nella supremazia culturale e scientifica occidentale portava concretamente alla descrizione – nelle schede esplicative dei musei – di quei popoli come barbari, selvaggi, inferiori. Razzismo, ignoranza e pregiudizi si rafforzavano a vicenda, e i residui di questa mentalità sono divenuti sempre più problematici nella coscienza post-coloniale europea, al punto che è si è sentita la necessità di riformulare completamente la concezione di un museo antropologico-etnografico.
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