“Se riesco a bloccare la fase dell’infiammazione potrei riuscire a far regredire e migliorare la situazione di un paziente in tempi molto più rapidi, evitando così la fase critica”. Ma attenzione: “Dare false aspettative è un errore: bisogna stare tranquilli, calmi”.
Roberto Gerli, professore ordinario di Reumatologia dell’Università degli Studi di Perugia, frena da subito i facili entusiasmi. “In questo momento non c’è nulla al mondo che possa dirci se questo farmaco funziona. I protocolli si fanno proprio per sperimentarlo”.
Il protocollo in questione è quello ideato dalla Sezione di Reumatologia dell’Università di Perugia, nato da un’idea di Carlo Perricone, Ricercatore della Sezione, e quindi finalizzato con la collaborazione di Elena Bartoloni, Professore Associato della stessa Sezione, per utilizzare la colchicina, farmaco solitamente usato in campo reumatologico, per contrastare l’infiammazione della fase 2 e 3 dell’infezione da Covid-19, il nuovo coronavirus, nella fase iniziale di ospedalizzazione del paziente. “Dobbiamo vedere se funziona. Ma se dovesse funzionare ci sono delle premesse veramente notevoli, lei capisce”.
Il professore la spiega così, delineando due vantaggi: “La nostra idea è quella di dare il farmaco non al paziente che sta per essere intubato, il paziente già in fase molto critica, ma a quello che si trova in una fase iniziale. Nel momento in cui il paziente si ricovera, ha in genere un interessamento polmonare, che può restare abbastanza stabile o peggiorare. In tal modo si potrà valutare se il farmaco riesce a prevenire il passaggio alla fase più critica ed evitare al paziente di andare in terapia intensiva”.
Eccolo, l’obiettivo: evitare il sovraccarico delle terapie intensive degli ospedali. E c’è di più: “L’altro vantaggio enorme – spiega ancora Gerli – è che questo farmaco, che è un vecchissimo farmaco, costa pochissimo. Tutto il trial che noi faremo a livello italiano costerà, in termini di farmaci, quanto mezza fiala di tocilizumab. E’ una cosa che, se dovesse funzionare, sarebbe esportabile in tutto il mondo, anche nei paesi più poveri, senza nessun problema”.
Un vecchio farmaco per un nuovo virus, quindi. Gerli racconta così la via percorsa dai medici e dai ricercatori dell’Università di Perugia: “Abbiamo avuto l’idea di utilizzare un vecchio farmaco, che noi utilizziamo per curare situazioni acute di infiammazione, come gli attacchi di gotta, perché questo coronavirus è sì un’infezione virale, ma nella storia naturale di questa infezione, per quello che sappiamo ad oggi, ha una prima fase con raffreddore, tosse e influenza, dopodiché la carica virale tende a ridursi progressivamente e aumentano dei fattori dell’infiammazione, che sono le citochine infiammatorie”. Dall’infezione all’infiammazione.
“Questa è una risposta naturale dell’organismo – sottolinea Gerli -. Il problema è che in questa seconda fase, dove c’è una riduzione della carica virale, c’è un incremento di queste citochine, fino a che si arriva a una terza fase in cui c’è un incremento spropositato di queste citochine, che sono le responsabili del danno che si può creare a livello degli organi, soprattutto del polmone”.
“Bisogna agire nella fase iniziale”
I’Il problema è che noi agiamo con questi farmaci in una fase già innescata, dove le citochine infiammatorie sono già molto elevate”, sottolinea Gerli. Prima, bisogna intervenire prima. Così i reumatologi hanno individuato un’arma: “L’idea di usare questo farmaco, che si chiama colchicina, nasce innanzitutto dall’azione bivalente del farmaco”. Punto numero uno: “La colchicina può avere anche un’azione antivirale perché agisce su delle strutture della cellula che vengono attaccate dal virus”.
Punto numero due, “ed è la cosa in cui io spero maggiormente”, aggiunge Gerli: “ Ha una potentissima azione su quelle componenti dell’infiammazione che tutte le cellule del sistema immunitario hanno, si chiama inflammasoma”.
Ovvero: “Una sorta di bombetta che ha dentro la cellula che una volta che viene innescata inizia a tirare delle frecce, delle piccole armi, contro gli agenti infettivi, e quindi libera queste citochine infiammatorie. La colchicina è in grado di bloccare questa produzione. E’ una situazione che interviene un po’ prima di quella in cui l’infiammazione è già in atto ed è massiva”. Insomma, un’altra ipotesi da tenere in considerazione. “Noi ci crediamo”.