La pandemia da coronavirus sta cambiando la nostra percezione degli spazi comuni, e dei rischi correlati alla loro frequentazione.
Essere rimasti per così tanto tempo chiusi in casa ha fatto esplodere – con qualche scossone – la voglia di vivere gli spazi aperti inaccessibili per due lunghi mesi. Adesso che il mondo esterno è di nuovo frequentabile, c’è il timore di essere contagiati durante la nostra attività fisica quotidiana, magari lungo i percorsi casa-lavoro fatti in bicicletta.
Durante il lockdown, molte notizie apparse sui media ci hanno avvertito dei rischi di trovarci inavvertitamente dentro una “nuvola” delle cosiddette droplet (goccioline), la nefasta rugiada veicolo di contagio, durante la corsa o la pratica della bicicletta, così come tra gli scaffali di un supermercato.
Queste simulazioni hanno posto l’accento su quanto la distanza comunemente disposta per il social distancing negli spazi aperti (1,5-2 m.) fosse inadeguata per scongiurare il rischio di essere investiti da particelle contagiose, nel caso che l’energia impiegata fosse superiore a quella del semplice camminare.
In particolare, ha destato preoccupazione quella pubblicata ai primi di aprile da un gruppo di fisici e ingegneri olandesi e belgi, dove si è concluso che in scia con un altro runner – o con un ciclista – la distanza di sicurezza dovesse essere ben maggiore di quella comunemente indicata.
Secondo i risultati di questa simulazione, condotta in una galleria del vento, le distanze sarebbero di cinque metri da chi cammina, dieci in corsa o durante una normale pedalata in bici, fino ai venti metri da un ciclista sportivo.
Notizie, o ricerche? In molti casi, si è trattato di contributi di indubbio interesse e accuratezza, che non sono però state ancora sottoposte a verifica da parte di virologi o epidemiologi per le loro implicazioni cliniche.
Il punto non sembra infatti se si possa o meno entrare in contatto con una “nuvola” emessa da qualcun altro, ma in che misura questa possa eventualmente contagiarci. Al di là delle simulazioni, la scienza non ha infatti dubbio che uno starnuto possa proiettare droplet e aerosol fino a 7-8 m. di distanza, o che il respiro accelerato dall’attività fisica possa diffondere con maggiore intensità particelle potenzialmente dannose.
Quanto queste siano però pericolose in modo direttamente proporzionale alla loro presenza è ancora da capire, anche se il numero di particelle da inalare per potersi ammalare di Covid-19 sembra molto più basso di quello riscontrato per le altre infezioni da coronavirus, come la MERS e la SARS.
Inoltre, come risulta da un primo studio pubblicato in Lombardia nella settimana successiva al primo caso di Codogno, il livello di contagio all’interno dell’organismo – la carica virale – tra sintomatici e asintomatici, questi ultimi tracciati in base ai contatti con i malati, è risultato essere sostanzialmente uguale, anche se gli asintomatici sembrano concorrere in misura minore alla diffusione del contagio, in quanto meno “efficaci” di chi, starnutendo e tossendo, mostri i sintomi.
Mentre la scienza fa il suo corso, noi dobbiamo capire come comportarci per riprendere le attività, iniziando a renderci conto di dove possiamo andare a cacciare – letteralmente – il naso, e dove no.
Due studi suggeriscono come sia la compresenza negli spazi chiusi a veicolare meglio l’infezione, rispetto all’attività all’aperto. I parchi e la campagna, ad esempio, saranno i luoghi dove molti cittadini riprenderanno l’attività fisica necessaria al benessere psico-fisico, quindi alle difese immunitarie.
Il primo studio, pubblicato ai primi di aprile, ha preso in esame i rapporti sanitari dai primi di gennaio ai primi di febbraio provenienti da 320 comuni cinesi, tranne che dello Hubei, la provincia (quasi 60 Mln. di abitanti) principale sede del contagio, sottoposta a lockdown dalla fine di gennaio.
Sono stati quindi identificati 318 focolai, per un totale di 1245 casi confermati in 120 città. Gli ambienti di contagio sono stati divisi in otto tipologie: domicili, trasporti, ristorazione, ricreazione, acquisti e miscellanei. Il domicilio è risultato essere l’ambiente di contagio maggiore (79,9%), portando gli studiosi alla conclusione che sia la condivisione di spazi chiusi a presentare il maggior rischio di contagio.