«Questa macchina è una m…». Correva l’inverno del 1974 e diciamo il primo approccio che Niki Lauda ebbe con la Ferrari non fu proprio dei più concilianti. In rosso era arrivato quell’anno su suggerimento al commendator Enzo Ferrari di Clay Regazzoni, suo compagno alla modesta Brm, dove il giovane austriaco aveva comunque fatto intravedere il proprio talento. A Maranello il titolo mondiale mancava dal 1964, quando fu John Surtees a conquistarlo: troppi per un uomo ambizioso come Ferrari, che sosteneva come «il secondo fosse il primo dei perdenti».
Il Drake, cui nessuno in tanti anni aveva mai osato rivolgersi con tanta sfrontatezza, non la prese benissimo e per tutta risposta intimò a Lauda di lavorare duro. Che tra i due non fosse mai vero amore, è del resto noto. A Maranello la progettazione della F1, era intanto stato riaffidata all’ingegner Mauro Forghieri che riuscì, anche grazie anche alle straordinarie doti di collaudatore di Lauda, a migliorare le prestazioni della 312B3, fino ad allora molto deludenti.
I risultati non tardarono ad arrivare; secondo nella gara inaugurale in Argentina, Lauda battezzò il suo primo successo in un Gran Premio di Formula Uno in Spagna e si ripeté quindi in Olanda; vuoi per inesperienza, vuoi per sfortuna, gettò al vento il titolo nelle ultime cinque gare della stagione, quando inanellò altrettanti ritiri. Il mondiale lo vinse all’ultimo gran premio Emerson Fittipaldi su McLaren, per soli tre punti su Clay Regazzoni.
L’anno seguente il Cavallino scrisse però la storia: dalle officine di Maranello uscì la leggendaria 312 T, un capolavoro. La svolta della stagione arrivò a Montecarlo quando Lauda, nonostante un problema alla pressione dell’olio, resistette al ritorno di Fittipaldi e riportò dopo vent’anni di digiuno la Ferrari sul gradino più alto del podio al Gran Premio di Monaco.
Da quel giorno l’austriaco infilò altri quattro podi di fila: tre vittorie, in Belgio, Svezia e Francia, un secondo posto in Olanda. Terzo in Germania al Nurburgring, si piazzò solo sesto in Austria sotto il diluvio di Zeltweg, dove a trionfare fu Vittorio Brambilla su March. Si arrivò così all’appuntamento del 7 settembre a Monza per il Gran Premio d’Italia. A Lauda bastava mezzo punto per laurearsi campione del mondo: partì in pole (sarebbero state ben nove quell’anno) davanti al compagno di scuderia Regazzoni; terzo Fittipaldi in agguato.
Al via Regazzoni scattò in testa, davanti al compagno; solo quinto, il brasiliano seppe però reagire, guadagnò due posizioni e mise il muso della sua McLaren in scia dell’austriaco; lo passò lanciandosi quindi alla caccia di Regazzoni. Non lo raggiunse. Vittoria per il ticinese davanti al brasiliano, terzo Lauda che si laureò campione del mondo. La pista, invasa dai tifosi del Cavallino, si trasformò in una marea rossa. La Ferrari festeggiò la doppietta; conquistò in un solo giorno il titolo piloti, che le mancava da undici anni, e il terzo titolo costruttori della sua storia.
Tutto questo 45 anni fa. Bei tempi e ricordi che di fronte allo sconfortante spettacolo offerto dalla Rosse ieri a Monza, fanno il pieno di malinconica nostalgia. Erano quelli i giorni delle maree rosse: oggi di rosso c’è solo l’imbarazzo per una caduta senza paracaduti nel baratro. Uno schiaffo alla storia stessa della Ferrari, dolore che il popolo che tanto l’ama non merita. Chi di dovere rifletta e ne tragga le conseguenze. È il minimo.
Elle Effe