Osvaldo. E basta. Lo chiamano tutti per nome, come si fa con gli amici. Osvaldo. Il ‘papà dello scudetto’ compie 84 anni, portati benissimo, il piglio garibaldino di sempre, il passo svelto, l’aria normale dei giorni belli, quand’era il più bravo di tutti ma se glielo ricordavi scrollava le spalle e diceva: “Quelli bravi sono diversi”. È stato davvero grandissimo e l’unico vero rammarico è che abbia smesso presto, troppo presto, perché quelli come lui avrebbero fatto comodo a lungo. “Ero all’Inter – ricorda ogni tanto – non stavamo facendo male, ma Pellegrini decide di mandarmi via. Poi, penso, si sia pentito, almeno così ho letto da qualche parte…”. Va via dall’Inter e chiude per sempre il sipario. Non era più il suo calcio, fatto di cose semplici, rapporti schietti, strette di mano, occhiate che valevano più di contratti. “Il mister era unico” dice sempre Piero Fanna. “Era avanti vent’anni rispetto a tutti, altrimenti non avremmo vinto lo scudetto. Già allora quel Verona giocava un calcio moderno, senza ruolo fissi, in verticale, come piaceva a lui. In tre passaggi, si va in porta, diceva…”. Per lui, quasi un altro papà. “Per me è stato il miglior allenatore che ho avuto, l’unico che mi abbia davvero capito fino in fondo. E con lui ho vissuto le mie stagioni più belle”. Non era uno di tante parole, l’Osvaldo. “No, ma diceva quelle che servivano” osserva capitan Tricella. “Se avevi giocato male o se qualcosa non andava, non te lo mandava a dire. Per il resto, lo guardavano e avevamo già capito che cosa volesse”. L’affetto e l’ammirazione al di là del tempo che passa. “E se avevi bisogno di parlare di cose personali lui c’era” aggiunge Di Gennaro. “Io mi ricordo, mi stavo separando e mi vedeva preoccupato. Gli parlai della situazione, trovai ascolto, conforto, le cose di cui hai bisogno in quel momento. Lui era così, sapevi che c’era, senza bisogno di dirtelo ogni giorno”. L’Osvaldo e le idee chiare, con una… lavagnetta come incubo. “Quando si andava in ritiro – sorride Galderisi – già al secondo giorno ci radunava e sulla lavagna scriveva la sua formazione. 1 Garella, 2 Ferroni, eccetera… Io mi ricordo il primo anno, arrivavo dalla Juve, non mi scrive sulle lavagnetta: 9 Jordan, 11 Iorio… Chiamo Boniperti e gli dico: Vengo via, non sono titolare… Poi giocai sempre, perché il mister sapeva cambiare idea se lo meritavi…”. Grande tecnico, grande uomo. “Dice sempre che il segreto è lo spogliatoio, ma era lui a darti l’esempio”, spiega Volpati. “Onesta, serietà, credibilità. E non è vero che fosse musone. Anzi. Il venerdì avevamo una cena che divenne portafortuna e ci veniva spesso anche lui. Si mangiava, ci stava anche un bicchiere, ma poi si vinceva lo stesso…”. Non era un sergente di ferro, ma quando ci voleva, ci voleva. Come quella volta a Milano, prima di un Milan-Verona. Il racconto è sicuro, come l’anonimato. “Eravamo a letto – dice l’anonimo gialloblù – passa Stefani, il massaggiatore, per il controllo serale. Ci siamo tutti, meno Berthold, che era uscito in segreto”. E che fa l’Osvaldo? “Gli scrive un biglietto: “Quando rientri, ti aspetto nella mia camera”. Berthold bussa alla stanza di Bagnoli, intorno alle 4. Il Resto ve lo potete immaginare. Il giorno dopo Berthold va in tribuna “per un attacco influenzale”. Senza polemiche. Senza sollevare “casi”. In punta di piedi, come piaceva all’Osvaldo. E in punta di piedi, oggi, una città un’età gli sussurra ancora “grazie”.