Un anno dopo sarebbe stato Seul. L’oro e poi lo scandalo, il trionfo e poi la fine del sogno “truccato’. Dodici mesi dopo avrebbe “accorciato” i 100 metri. “Sarò l’uomo più veloce del mondo”, aveva detto quel giorno a Verona. Senza alzare troppo la voce. Parlava senza quasi muovere i muscoli del viso, Big Ben Johnson. Come quando correva. Una sfinge. Lì, nella sala del Due Torri, pareva persino svogliato. Abbozzò qualche sorriso, a metà tra il timido e l’annoiato.
“Ho già battuto Lewis e non per caso. Lo batterò ancora. Lo batterò anche a Seul”. E poi aggiunse: “Venite a vedermi, mi alleno allo stadio, nel vostro stadio. E’ molto bello, vi aspetto”. Big Ben, sornione, diede l’idea di aver “ripassato” la storia. “Elkjaer? rispose a una domanda “veronese”. “So che era un po’ pazzo, ma io sono più crazy di lui”.
E il giorno dopo mantenne le attese. Fu uno spettacolo. In pista nettamente a suo agio, firmò autofrafi, si concesse per le foto, allora si poteva anche arrivare alla pista, non come oggi che mille filtri ti dividono dai campioni.
Era l’11 giugno del 1987. Big Ben non era solo. Con lui, in quel meeting del Bentegodi, che ogni anno riempiva lo stadio, c’erano Calvin Smith, Evelyne Ashford, Aouita.
Johnson guardò le tribune, abbozzò una smorfia quando seppe che Calvin Smith aveva scelto i 200. “Peccato, avrei fatto il mondiale” sussurrò. Si sistemò sui blocchi. Volò i 100 in 10”15. “Sono il più veloce del mondo”, ripetè. Pareva l’inizio di una favola. Era, quasi, l’inizio della fine.