“Non è stato facile arrivare in Italia a 10 anni, non conoscevo nessuno, e poco della lingua italiana. Però ero un ragazzino molto volenteroso: grazie alla scuola, agli amici e al calcio in breve tempo ho rimediato. Anche se passare dai 30 gradi del Marocco, al freddo veronese, è stato un duro colpo (ride)”.
Rachid Arma, 36 anni appena compiuti, sembra proprio un ragazzo simpatico e un bravo
padre di famiglia. Lo senti subito dalla voce che è un tipo onesto, uno “con la testa sulle spalle”.
Dopo l’infanzia tifando Milan da Agadir (cittadina sul mare a sud di Marrakech), con mamma e sorella raggiunge il papà a San Bonifacio. Da lì i primi calci nella Provese, tutta la trafila delle giovanili nella San Bonifacese e la serie D. Fino al grande salto con il primo contratto alla Spal e l’apice toccato nel Torino di Colantuono, nella cadetteria. 400 presenze tra i professionisti, festeggiate nel vittorioso derby con il Legnago. E 141 reti in carriera. Una anche domenica scorsa, a regalare alla sua Virtus il tanto sospirato pareggio con l’Arezzo.
Che cosa ricorda degli inizi da calciatore?
All’inizio in serie D, lavoravo di giorno come operaio metalmeccanico nell’azienda di papà e alla sera mi allenavo. Finito allenamento, cenavo e andavo a letto, ero cotto. Poi con il passaggio alla Spal ho potuto scegliere di fare quello che mi piaceva, e nel Torino c’era un professionismo pazzesco. Eravamo serviti e riveriti, mi lavavano le scarpe dopo ogni seduta. Io mi pizzicavo e mi chiedevo: “Sto sognando o è tutto vero?”
Tanti allenatori e tante esperienze in giro per le squadre del nord Italia. Quali le migliori?
Difficile scegliere, ogni piazza ce l’ho nel cuore. Diciamo che Aldo Dolcetti alla Spal è stato il primo a darmi fiducia. A Pisa con Dino Pagliari in panchina, ho imparato a buttare il cuore oltre l’ostacolo. Poi nel Pordenone a quasi 30 anni, Bruno Tedino mi ha insegnato cosa volesse dire “giocare a calcio”. E gli anni scorsi con Mimmo Di Carlo, erano lotta e fame di vincere.
Rimpianti?
Col Torino abbiamo perso lo spareggio a Brescia, per andare in A. Mi annullarono un gol valido in casa, sotto la curva. E al ritorno segnai, ma perdemmo 2-1. Piansi per 2 giorni, avevo la serie A ad un passo. Anche se la cosa che più mi dispiace, è stata quella di non esser riuscito a dimostrare davvero il mio fiuto del gol anche in serie B. Nei granata avevo davanti Rolando Bianchi che fece 26 gol, e nel Vicenza c’era Abbruscato che ne realizzò 25. Diciamo che ho sempre portato fortuna agli altri… (ride).
Quest’anno il ritorno a Verona, anche se in estate le richieste erano tante. Giusto?
Sì, avevo ricevuto diverse proposte. E a un certo punto stavo partendo per Monopoli, non avendo mai giocato al sud. Poi all’ultimo mi chiamò Gigi Fresco, convincendomi a rimanere qui.
Una scelta che si è rivelata vincente?
Sì, stiamo andando molto bene. C’è un bel gruppo e viviamo senza pressioni. La salvezza è ad un passo, e sognare i play-off non ci costa nulla. Il mister poi lo conosco da 15 anni, ed è uno che ti mette sempre a tuo agio. L’ambiente è sereno, e non c’è per forza da seguire tutti quei protocolli da eccessivo professionismo, spesso inutili. Se vuoi mangiarti un dolcetto in più lo fai, ovviamente senza esagerare.
Nel futuro cosa le piacerebbe fare?
Mi piacerebbe giocare come Ibrahimovic fino a 40 anni, per il resto non ci ho ancora pensato…
Fabio Ridolfi