La faccia del «bocia», e poi quegli sbuffi quando la fatica si fa sentire, l’acido lattico ti attanaglia le gambe e il fiato ti si fa corto. Lui però è uno che non molla mai. Sempre stato così, Davide Formolo, sin da ragazzino quando sgambettava sui pedali dell’Ausonia Pescantina, fucina di talenti dove è cresciuto. «Di lui mi ha sempre colpito la determinazione – ha raccontato Orlando Conati suo allenatore a quei tempi -: non mollava mai. Finiti gli allenamenti, i genitori venivano a prendere i ragazzi; lui tornava in bicicletta fin su a San Rocco. Gli dicevamo di lasciar stare, che si era allenato abbastanza, ma Davide non voleva sentir ragioni». Così si spiega perché da allora Davide Formolo è per tutti più semplicemente «Roccia». «Mi sa che ero un po’ fuori di testa, ma d’altronde se mi chiamano “Roccia” un motivo ci deve pur essere» ci scherza su lui, che il dono di non prendersi troppo sul serio ce l’ha e i piedi li ha ancorati bene a terra, o meglio sui pedali.
Già, e da allora il ragazzo della Valpolicella ne ha fatta di strada: la sua prima vittoria significativa tra i dilettanti risale al 2012 col successo al Giro Ciclistico Pesche Nettarine di Romagna, traguardo bissato l’anno seguente, quando chiude sesto al Tour de l’Avenir, la corsa a tappe francese riservata ai campioni di domani; all’esordio tra i professionisti nel 2014 con la maglia della Cannondale, è secondo al campionato italiano, battuto da Vincenzo Nibali.
Squillo che annuncia la prima grande vittoria al Giro del 2015, quando con un’azione spettacolare arriva da solo al traguardo di La Spezia. Si accorgono di lui e lo chiamano «Formolino» per quell’aria fanciullesca da simpatica canaglia tanto cara a Mark Twain; nel 2019 debutta alla Vuelta con un posto nella top Ten della generale, Davide Cassani lo fa entrare nel giro azzurro. «Roccia» mette una classica nel mirino, la più antica di tutte, la Liegi-Bastogne-Liegi, la Doyenne: è la primavera del 2017 quando nel finale piazza la botta sul Saint Nicolas e per un po’ ci fa sognare, poi lo riacciuffano e vince, manco a dirlo, Alejandro Valverde.
Ancora meglio un anno fa, quando si arrende solo alla potenza del motore di Jakob Fuglsang. La scorsa estate, la vittoria più bella: quella maglia tricolore conquistata a Compiano in una giornata torrida con una fuga da lontano, come piace a lui. Alla soglia dei ventotto anni, Davide ora sa cosa voler fare da grande; nel primo scorcio di questa tribolata stagione, lo ha già messo in chiaro: secondo alle Strade Bianche alle spalle dell’imprendibile Van Aert, ha vinto una tappa da campione al Delfinato dopo aver staccato tutti sul Col de la Madeleine (uno dei sacrari del Tour, mica una salitella qualsiasi) ed essersi sciroppato 70 km in solitaria. Domenica scorsa al campionato italiano in Veneto ha corso sempre davanti. A chi gli dava del Godot, lui ha sempre risposto che un ciclista raggiunge l’età della maturità a 27-28 anni.
Bello reattivo, deve aver anche capito come sia inutile incaponirsi a spingere rapportoni impossibili, come si ostinava a fare nel recente passato. Buon segno. Sabato da Nizza, scatta il Tour de France che per la prima volta lo vede al via. Lui promette di voler ritagliarsi un ruolo da protagonista lavorando per la squadra ma cercando anche di portarsi a casa una tappa. «Vi farò fare i salti sul divano» ha promesso ai tifosi. Tenetevi forte, è uno di parola. Allez Allez!
elle. effe.