Nel pure variegato panorama musicale italiano tra il secolo scorso e questo, Angelo Branduardi occupa una posizione così particolare da essere non solo un artista di fatto unico, ma di essere diventato un vero e proprio personaggio, ammantato di caratteri che lo rendono immediatamente riconoscibile. Diplomato al conservatorio in violino, per nulla desideroso di fare il cantante, Branduardi ha sempre dato e continua a dare importanza primaria all’aspetto melodico delle sue canzoni.
Ciò che, tra le altre cose, rende affascinante questo artista è la spiccata dimensione di studio e di ricerca che anima i suoi album: l’intento di Branduardi, come da lui stesso più volte dichiarato, è quello di ritornare a una dimensione musicale priva dei ritmi e delle sonorità contemporanei, di recuperare un antico tanto distante da essere quasi avveniristico. Spesso accade anche che le canzoni cantate da Branduardi combinino raffinatezza musicale e profondità di testo e contenuto: Branduardi ha musicato poesie del poeta irlandese William Butler Yeats e ampi brani della letteratura francescana, tra i quali lo stesso Cantico delle creature.
L’etichetta di musicista in senso largo “medievale”, o “rinascimentale”, insomma la qualifica di menestrello che è stata assegnata a Branduardi rischia di essere, in effetti, riduttiva, sia, appunto, per il contenuto di alcuni suoi testi – scritti per la gran parte dalla moglie –, sia perché lo stesso artista ha attuato, in passato, arditi esperimenti musicali, concretizzatisi in alcuni degli album meno fortunati della sua vasta produzione.
Certamente, ascoltando Branduardi ciò che ci si aspetta è una ricchezza di suoni, una musica colorata e vivace; al contrario, negli anni Novanta Branduardi ha intrapreso un periodo di ripulitura della propria musicalità, procedendo alla riduzione progressiva delle voci strumentali e sperimentando anche l’inserzione della musica elettronica. Ciò che Branduardi fa, dunque, non è un’operazione antiquaria o, peggio, nostalgica; è invece, sempre e al di là dei risultati, un’operazione rivoluzionaria per la nostra epoca, e il fatto che questo si concretizzi nella maggior parte dei casi nel ritorno di sonorità antiche dovrebbe far riflettere sull’imperialismo culturale esercitato dall’industria discografica. Basti pensare che l’ultimo album di Branduardi mette in musica i testi – ma soprattutto l’esperienza spirituale – della mistica medievale Ildegarda di Bingen: un disco complesso, come si usa dire “non per tutti”, ma il fatto che Branduardi lo pubblichi indica che forse, con un po’ di impegno e la volontà di uscire dagli schemi, si può apprezzare anche ciò che non si conosce.
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