Fuori dagli schemi. È questo concetto che segna la prova di maratona delle Olimpiadi di Roma del 1960, per più di un motivo. In primo luogo, l’orario, a differenza delle edizioni precedenti, era stato fissato alle 17.30, nel tardo pomeriggio, affinché i corridori non dovessero soffrire in maniera eccessiva la calura estiva, che persisteva nonostante fosse il 10 settembre. Secondariamente, il percorso designato era ben diverso rispetto quello a cui si è tutti abituati, in quanto gli atleti non avrebbero corso sul classico campo di atletica ma al di fuori di esso, articolandosi tra le strade e i monumenti della capitale italiana. Il paesaggio della competizione, che partiva dal Colle Capitolino e terminava sotto l’Arco di Costantino, era indubbiamente unico e suggestivo, scenario ideale per fare spazio a qualcosa di davvero fuori dal comune.
L’interesse di tutti era stato rivolto da subito al favorito Segej Popov, sovietico che aveva precedentemente segnato il record mondiale sulla distanza di 2.15’17”, mentre all’etiope Abebe Bikila venne riservata ben poca considerazione. Quest’ultimo, infatti, era la guardia del corpo dell’allora imperatore Hailé Selassié, il quale per primo non credeva potesse vincere le Olimpiadi, poiché molto magro. Eppure, si sarebbe potuto intuire che Bikila avrebbe riservato delle sorprese dato che il suo tempo migliore sulla distanza (2.21’23”) era stato ottenuto ad oltre 2400 metri di altitudine, ad Addis Abeba. Il 10 settembre 1960 l’attenzione generale si dovette spostare repentinamente proprio sulla figura del giovane etiope. Tutti gli sguardi si spostarono sul suo corpo asciutto che attraversava trionfante l’Arco di Costantino indossando una canottiera verde e attillati pantaloncini rossi: ai piedi, nulla. Quei piedi scalzi che tagliarono il traguardo segnarono il nuovo record mondiale di corsa, pari a 2 ore e 15 minuti. Perché Bikila non indossasse le scarpe, rimane ancora un fatto da comprendere, poiché da quello stesso istante iniziarono a circolare storie che ben presto si tramutarono in leggende. Secondo alcune voci, al corridore si sarebbero rotte le scarpe prima della gara e quelle acquistate a Roma sarebbero state troppo scomode per via del suo alluce troppo lungo: per evitare le vesciche, che avrebbero compromesso la gara, avrebbe deciso di gareggiare senza. A detta di altri, invece, questa scelta l’avrebbe maturata l’allenatore Niskanen, inserendola come strategia vincente del suo atleta, una scelta fatta partendo dalla considerazione che Bikila era abituato a correre scalzo ogni mattina, dalle 4 alle 6, prima di andare a compiere il suo dovere di guardia del corpo.
Oltre a questo, la strategia di Niskanen e Bikila si ricoprì anche di una forte carica psicologica. I due, infatti, dopo aver esaminato il percorso di gara, si resero conto che giusto un miglio prima del traguardo il corridore sarebbe dovuto passare vicino all’Obelisco di Axum, precedentemente trafugato dalle truppe italiane ai tempi della Guerra d’Etiopia e posto in città come segno di vittoria; inoltre, la zona presentava una leggera pendenza che si sarebbe potuta rivelare vantaggiosa. Mentre il duo sovietico formato da Popov e Vorobjov manteneva il proprio ritmo e valutava la strategia di Bikila rischiosa, in quanto gli sarebbe potuta costare un crollo finale proprio prima dell’arrivo, il giovane riesce a portare a termine la sua impresa, sfruttando il terreno e la carica emotiva per dare lo sprint finale. Il podio di quel giorno vide l’oro per l’Etiopia e l’argento per il Marocco, mentre il favorito non raggiunse nemmeno il bronzo.
Oltre alla vittoria della gara, l’aver concluso la sua impresa rappresentò una rivincita per Bikila, che sottolineò come “l’Italia ha avuto bisogno di un esercito di un milione di uomini per sconfiggere l’Etiopia, mentre un solo soldato Etiope è stato in grado di conquistare Roma”.
Dopo questa fatica, Bikila dimostrò le sue capacità vincendo la maratona alle Olimpiadi di Tokyo quattro anni più tardi e promise di mantenere il suo primato ai Giochi del ’68. Tuttavia, non potè mantenere la sua parola, a causa di un incidente stradale per le strade di Addis Abeba che gli comporta una grave lesione all’osso del collo. Pur non potendo più correre né camminare, gareggia alle paraolimpiadi nel tiro con l’arco nel 1972, la sua ultima apparizione prima della morte l’anno successivo.
Giulia Maria Cavaliere